Il fervente appello di Leopardi alla natura, sentita come benigna, non va inteso come irrazionalismo mistico, ma come lotta per una civiltà celebrata nella sua totalità e come impegno per valorizzare l’uomo nella sua integrità. In questo scenario si sviluppa una “biforcazione” (termine usato da Walter Binni in un saggio): da un lato si staglia l’eroismo, dall’altro serpeggia l’egoismo. Per il poeta l’egoismo è la forma in cui l’amor proprio si traduce nell’uomo generoso, attivo, poetico, nonché vicino alla natura come fu nelle epoche della classicità greca e latina.
L’egoismo, invece, è il vizio, la sigla abietta dell’uomo contemporaneo che – esercitando la ragione in modo gretto e calcolatore – riduce la zampillante sorgente dell’amor proprio al tornaconto individuale, al conformismo interessato e impoetico.
Leopardi miravi a configurare un uomo che, sulla base dell’amor proprio e dell’egoismo, fosse continuamente rivolto al bene pubblico, e fosse proteso al conseguimento della felicità personale pur sempre all’interno del consorzio sociale, fuori dal quale l’individuo svaporerebbe in una dimensione irrilevante e sterile, e nell’uggioso compiacimento di una “securitas” egoistica che conduce al tedio e, quindi, alla morte della illusioni. In un pensiero del 21 gennaio 1821, contenuto nello “Zibaldone”, il recanatese scrive: “Eccoci tutti filosofi, eccoci tutti egoisti. Ebbene siamo noi felici? Che cosa godiamo noi? Chi è o fu più felice? Gli antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, negozi, imprese, pericoli; o noi, colla nostra sicurezza, tranquillità, ordine, amore, del nostro bene e noncuranza di quello degli altri? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo?”
Da questo pensiero si evince una prospettiva di giudizio in cui vibra una tensione morale cui è sottesa una mirata meditazione sulla politica, con particolare riferimento alla problematica legata agli urti, in quel tempo, fra la Restaurazione e i moti liberali in Italia e in Spagna. Una politica che Leopardi concepiva come la parte più importante della filosofia morale e che riteneva fosse funzionale alla “ricerca della felicità” perseguita dal singolo e dalla collettività. Alla luce di questa valutazione si chiariscono le ragioni della sua preferenza per i regimi democratici-popolari, repubblicani della Grecia e di Roma, e, al contempo, i motivi del suo rifiuto per il “compromesso” delle monarchie costituzionali, le quali in quegli anni rappresentavano il modello dei liberal democratici, privi – secondo Leopardi – di “consequenzarietà” ideologica e morale.