L’eroe di Svevo non consegue mai una piena maturità di uomo. Non gli arride il coronamento del lungo e faticoso processo della classica “educazione sentimentale”, parte integrante del romanzo dell’Ottocento e del Novecento. Con i perpetui smacchi e scacchi subiti e sofferti, la vita può anche avergli insegnato qualche cosa, tuttavia la lezione impartita viene da lui assorbita solo sul piano mentale: le tensioni e le aspirazioni dell’animo rimangono inevase. Il cervello dell’eroe sveviano sa di aver imparato come ci si debba comportare nel mondo, ma queste acquisizioni cerebrali non si sublimano mai in esperienza. E’ netto e reciso il profilo che Giacomo Debenedetti traccia dei protagonisti dei romanzi di Svevo. In loro il critico riconosce il lavorio di una negatività che sul piano esistenziale si configura come un fallimento, ma che sul versante della finzione letteraria si riscatta fino ad assumere l’eccellenza di una cristallina e feconda ispirazione artistica.
“Fra sé e sé, nella sua testa, l’eroe sa discutere abbastanza bene il pro e il contro di una certa decisione, ma tutto questo rimane allo stato di pura teoria – scrive Debenedetti -. Le decisioni scattano lineari e precise, sono volute dal puro istinto, prima che vagliate dalla ragione. Quindi nelle sue manifestazioni reali, la vita rimane sempre per lui un indecifrabile e caotico enigma”. L’eroe di Svevo è dunque un uomo che si comporta sempre da adolescente. Continua a nutrire la fiducia che il mondo sarà benigno verso di lui, non arrivando così mai a capacitarsi che ad un certo momento la vita è incominciata, “quella vita che fa sul serio e che non perdona”.
Alfonso Nitti, protagonista di “Una vita”, è descritto come un uomo “dai rimpianti amari e dai rimorsi”. Ha degli attimi di resipiscenza, in merito ai quali Svevo osserva: “Non era la prima volta che egli credeva di uscire dalla puerizia”. Tuttavia ci ricadrà nella puerizia, al prossimo tentativo di azione. A sua volta, Emilio Brentani, il soggetto principale di “Senilità”, parla spesso della propria esperienza (che nella sua testa si staglia come un progressivo accumulo di saggezza), ma, scrive impietosamente Svevo, “ciò che egli credeva di poter chiamare così era qualche cosa che aveva succhiato dai libri” e nel frattempo “viveva per il futuro”. La sua, dunque, è un’esperienza labile e inaffidabile.
In questo scenario spicca il protagonista de “La coscienza di Zeno”, che passando dall’una all’altra facoltà universitaria non è riuscito a prendere una laurea. Rimane allora fissa in lui la mentalità di studente che – evidenzia Debenedetti – gli obblighi della scuola esimono ancora da qualunque serio impegno verso la vita.
In questi personaggi si consuma l’impossibilità di diventare, di fronte all’esistenza quotidiana, “come” gli altri. Si sentono “meno” degli altri nell’abilità di intessere rapporti sociali, ma – essendo comunque dotati di una certa finezza di sentire e di una plausibile capacità di giudizio – sono indotti a disapprovare con uno sdegnoso ghigno i metodi spicci e grossolani che permettono ai loro simili di riuscire nella vita: di conseguenza arrivano a credersi “più” degli altri. In questa altalena di prospettive sta la frattura, drammatica e insanabile, tra i principi, compassati, dell’eroe di Svevo e le disinvolte dinamiche del mondo.