“Ecco che il poeta è morto una seconda volta”. Fu questo il commento, tra l’irato e il sarcastico, di Boris Pasternak alla dichiarazione di Stalin, nel 1935, che “l’indifferenza” alle opere e alla memoria di Vladimir Majakovskij (morto suicida cinque anni prima) rappresentava “un crimine”. L’autore del “Dottor Zivago” aveva ben compreso che la coltre di ipocrisia che avvolgeva quella dichiarazione celava l’intento di collocare, con una forzatura smaccata, la scomoda figura del poeta e del drammaturgo entro gli schemi della propaganda sovietica: una sorta di dieta delle patate, evidenziò con tono caustico Pasternak, come quella suggerita, a suo tempo, da Caterina la Grande.
Majakovskij fu considerato il cantore della rivoluzione d’Ottobre e l’illuminato punto di riferimento del nuovo corso intrapreso dalla cultura russa post-rivoluzionaria. Il poeta riconosceva alla parola una peculiare forza d’urto, tanto da auspicare che esplodesse “come una mina” all’interno di ogni discorso. E proprio attraverso il mirato uso della parola Majakovskij innescò una rivoluzione lessicale e sintattica, primo passo per realizzare un distacco, reciso e polemico, dalle formule poetiche del passato, da lui giudicate viete.
Sin dagli albori, la sua arte si mise al servizio della rivoluzione bolscevica: la poesia, di conseguenza, aveva il dovere – concepito come missione – di configurarsi come espressione immediata dei cambiamenti in atto. In “Mistero buffo” ebbe il coraggio di descrivere quanto di “comico” vi fosse in ogni rivoluzione e, nello stesso tempo, ebbe l’ardire di fondare il giornale “Iskussivo Kommuny” attraverso il quale venivano organizzate anche letture di versi nelle fabbriche: sapeva bene di sfidare così la soffocante censura del regime zarista e poi quella, certo non meno rigorosa, della dittatura staliniana. Con un colpo di pistola al cuore, fu egli stesso – a seguito delle cocenti delusioni politiche – a infrangere il sogno di un avvenire migliore. Un sogno a lungo accarezzato. “Se muoio, non incolpate nessuno, e, per favore, niente pettegolezzi”, aveva scritto, in una nota, nel prendere congedo dal mondo.