Con destrezza Manzoni fa uso degli aggettivi valorizzandone, in un serrato contesto sintattico, la gamma delle sfumature. Rappresenta un classico l’utilizzo del doppio aggettivo: l’uno e l’altro si integrano, temperandosi a vicenda. Alcune pagine dei “Promessi sposi” offrono un’esemplare testimonianza di questa sapiente dimensione narrativa diretta a fornire una descrizione esaustiva del soggetto. In questo scenario gioca un ruolo nevralgico l’avversativa “ma”, in virtù della quale il ritratto si offre ad una doppia, complementare lettura. La madre di Cecilia è rappresentata nella sua bellezza “velata e offuscata, ma non guasta”, quella bellezza “molle ad un tempo e maestosa”. La sua andatura era “affaticata ma non cascante”. Poi c’è il suo dolore, che ha in sé “un po’ di pacato e di profondo”. Anche nel ritratto del cardinale Federigo si riscontra il metodo dell’appaiamento, integrativo o limitativo, di due aggettivi (come pure di due sostantivi e di due verbi). Così Manzoni scrive del porporato: “Il portamento era naturalmente composto, ma quasi involontariamente maestoso; non incurvato né impigrito punto dagli anni, l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; tutte le forme del volto indicavano che, in altra età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza”. E ora la gioia continua di una speranza ineffabile aveva plasmato una “bellezza senile ma non sciupata”, in cui spiccava “la semplicità della porpora”. Vi è poi il ritratto della monaca di Monza, con quella sua bellezza “sbattuta, sfiorita, direi quasi scomposta, ma sulla quale si stagliavano gli occhi, neri neri”. Le gote erano pallidissime, “scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione”. E “nel vestire c’era qualcosa di studiato ma anche di negletto, che annunciava una monaca singolare”.