Due uomini, due diverse conversioni. Da un lato Lodovico, futuro fra Cristoforo; dall’altro l’Innominato. In questo scenario spiccano, fuse insieme, la sensibilità umana e la coscienza cristiana di Manzoni. La conversione di Lodovico (colpevole di omicidio) non è un atto di ordine teologico, come quello che invece si consuma nell’animo dell’Innominato, ma di ordine morale. Nella vicenda di fra Cristoforo non vibra la classica questione di una vita con o senza Dio, ma di una vita più o meno impegnata con Dio. In sostanza, non si tratta di un passaggio dal male al bene, quanto piuttosto dal mondo al convento. Diversa, dunque, è la prospettiva della dimensione divina nelle due conversioni. Dio non è messo in dubbio da Lodovico: Dio è perciò una presenza sottintesa e indiscutibile, che alla fine non si configura come una rivelazione, ma come la “provvidente presenza” – per citare il critico Giovanni Getto – che, attraverso le circostanze della salvezza materiale (il rifugio nel convento) addita la via della salvezza spirituale, trasformando la velleità di “farsi frate” in una precisa volontà attuale.
E’ invece l’Innominato a scoprire Dio (prima totalmente assente in un animo “nero come pece”) nel corso di una notte di tormenti, scatenati dalla fiera e feconda umiltà di Lucia, la quale aveva osato suggerirgli che “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”. Ecco che la breccia – in quell’animo chiuso e riottoso – è aperta.
Alla fine del processo di conversione – illuminante intuizione di Manzoni, attento all’equilibrio del sentire umano e alla coerenza dello sviluppo narrativo – entrambi sono uomini nuovi pur conservando tracce degli uomini “antichi”. Il passato legittimamente permane, sempre e comunque: non per smentire o minare la conquista ottenuta, ma, al contrario, per suggellarla, alla luce di una fondamentale plausibilità, che vuole essere un segno di rispetto per le piccole e grandi verità radicate, e mai del tutto cancellate, nei sinuosi meandri dell’animo umano.