La grandezza dei “Promessi sposi” si comprende con una considerazione sintetica della loro fisionomia, dove si rispecchia uno spirito che ha conquistato, in un silenzioso travaglio, una perfetta unità. E’ l’elogio tessuto dal critico Attilio Momigliano il quale sottolinea che il romanzo costituisce la “forma ultima” a cui è giunto lo spirito dello scrittore, nonché la sublimazione della sua vita nella trasparenza dell’arte. Nei “Promessi sposi” le “osservazioni” sono diventate creature, paesaggi, avvenimenti, e hanno animato, senza tregua, la fantasia del Gran Lombardo.
“Per sentire l’armonia di questo capolavoro – scrive Momigliano in un saggio del 1948 – bisogna conoscere la pace solenne dello spirito di Manzoni, da cui discende quello sguardo sapiente, comprensivo, fermo e pietoso che si stende su tutte le vicende umane. Chi è penetrato nell’intimo del romanzo, e perciò vede riflesso il tutto nelle parti, sente il respiro della fede anche nella pagina che descrive il temporale foriero della fine della peste. Chi non ci vede tale elemento, questa fede non la comprende. La stessa compostezza del suono è l’eco di una compostezza intima, di un’incrollabile sicurezza in una verità eterna che cancellerà le prove angosciose del mondo che passa”.
Momigliano afferma che Manzoni è un grande che “noi abbiamo intuito più che compreso”. Quella dello scrittore è una serenità che, forgiata al fuoco della fede, si rivela superiore alle febbri e alle agitazioni umane. In virtù di tale serenità, egli ignora l’esclamazione declamatoria e il moto violento. Evidentemente “Dio gli ha donato un po’ della sua armonia”. Altrimenti non si spiega quella inscalfibile solidità, quella lucidità senza macchie, quel senso continuo che emanano dai “Promessi sposi”.
Manzoni sa mantenersi calmo pur nella commozione più profonda. Di conseguenza da ogni pagina del romanzo s’irradia “una certezza” che sa dissipare le nebbie e placare i dissidi. La fede equanime è la chiave che ha aperto alla fantasia di Manzoni le porte del mondo. Il sugo del romanzo è nelle parole di fra’ Cristoforo ai due fidanzati, che esprimono la concezione manzoniana della vita e il suo ideale di felicità terrena: “Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi ad un’allegrezza raccolta e tranquilla”.
Lucia, che nelle ore scialbe, “dice poco al nostro spirito, si trasfigura in mezzo alle prove più dure. Renzo, che può ubriacarsi dopo l’onore d’aver fatto la scorta a Ferrer, diventa “quasi l’eguale” di fra’ Cristoforo in mezzo agli appestati morenti e, dinanzi a don Rodrigo “percosso da Dio”, sembra – alla fine della sua odissea – qualcosa di più che il montanaro impulsivo dei primi giorni. Fra’ Cristoforo, l’Innominato, Gertrude devono alla propria personale tragedia la loro purificazione. Il cardinale Borromeo deve alla regola del sacrificio il fascino che esercita anche sugli uomini più gretti; don Rodrigo deve al tormento della peste “gli unici giorni di serietà spirituale”, e forse l’indulgenza di Dio.
“Il dolore nella compagine dei Promessi sposi – evidenzia Momigliano – ha una parte preponderante e nulla è così profondo in questo capolavoro come quello che scaturisce da tale sentimento”. Fino al momento del matrimonio a sorpresa l’arte di Manzoni è grande, “ma di un ordine relativamente inferiore”. Poi, quando comincia l’errar malinconico degli esuli e le loro vicende si innestano nella tragedia di tutto un popolo, “il romanzo diventa poema”. Infatti il romanzo non è soltanto “un’odissea cristiana”, rassegnata e sublime, di Renzo e Lucia, ma “la storia” degli errori, delle debolezze, delle angosce di un’età in cui ora emerge e spicca, ora si inabissa – in un mare tempestoso – la vita tormentata dei protagonisti.