Rigore e disobbedienza, disciplina e ribellione: quattro perni sui quali ruota la narrativa di Herman Melville. I due poli sono incarnati dal capitano Achab, protagonista di “Moby Dick” e da Bartleby, lo scrivano che dà il nome al racconto. Non c’è contraddizione nel focalizzarsi, da parte dello scrittore statunitense, sull’inflessibile Achab e sullo sgusciante Bartleby, maestro nel sottrarsi al dovere brandendo come fosse una spada il suo personale motto “I would prefer not to” (preferirei di no), quando gli viene chiesto dai superiori di sbrigare mansioni di ufficio. In Melville agì infatti potente la volontà di sondare in tutti i suoi aspetti l’animo umano, fino ai recessi più reconditi.
Quella dello scrivano, figura meno nota all’immaginario collettivo rispetto al celebre capitano della nave Pequod, rappresenta in realtà un’icona nel panorama della letteratura mondiale. In essa si riconosce il modello dell’impiegato insofferente del grigiore di una anodina quotidianità che procede limacciosa e senza acuti. Nello stesso tempo Bartleby si configura come il simbolo di un dissenso, non gridato ma non per questo meno perentorio, nei confronti di una società irretita dalla sete di guadagno. Sollecitato dal suo datore di lavoro a svolgere compiti che esulano dal suo ambito di competenza, Bartleby oppone un rifiuto categorico: finirà in prigione, dove si lascerà morire di fame. C’è molto di autobiografico in questa vicenda, considerando che Melville provava un’avversione sempre più intensa nei riguardi delle pastoie imposte da una società consumistica, rea di volgere le spalle alla dimensione etica del vivere civile.
Tutta l’opera di Melville si alimenta di una cronica inquietudine che trova la perfetta esemplificazione nel capitano Achab, agitato giorno e notte, nell’ossessiva caccia alla balena bianca. Così scriveva Melville in una lettera a Evert Duyckink, consulente della casa editrice di New York per la quale aveva pubblicato: “C’è in ogni uomo che si eleva al di sopra della mediocrità un qualcosa che, per di più, si percepisce d’istinto. Io amo tutti gli uomini che si tuffano. Qualunque pesce sa nuotare vicino alla superficie, ma c vuole una grossa balena per scendere a ottomila metri e più, e se questa non ce la fa a toccare il fondo, tutto il piombo di Galena non basta a forgiare lo scandaglio in grado di farlo”.
Con questa asserzione, una sorta di manifesto letterario, Melville fa riferimento all’intero corpo dei “palombari del pensiero”, i quali hanno avuto il coraggio di immergersi fino in fondo per poi tornare a galla, “con gli occhi iniettati di sangue da che è cominciato il mondo”. Sono gli stessi occhi di Achab, il cui microcosmo – abitato dalla sete di vendetta, dalla paura dell’ignoto, come pure per gli ineffabili spettacoli della natura – si allarga fino a diventare macrocosmo, ovvero condizione del sentire universale. Di conseguenza il travagliato cammino di ricerca della balena è cadenzato da illuminanti riflessioni, di carattere filosofico e scientifico, sui grandi temi dell’esistenza.
Nell’atto di solcare le insidiose acque dell’Oceano Pacifico s’intrecciano le meditazioni sui valori della verità e della giustizia. A dare anima e sostanza al serrato dibattito è il narratore Ismaele, alter ego di Melville. Nella voce di Ismaele sembra riecheggiare la missione di Orazio, chiamato a comunicare ai posteri la vicenda di Amleto. E il silenzio dell’”Amleto” è lo stesso silenzio che accompagna l’inabissamento del Pequod, la morte del suo capitano e di tutto l’equipaggio. Soltanto Ismaele riuscirà a salvarsi.
