Nella lettera del 26 marzo 1805 Vincenzo Monti consegna questa confidenza alla baronessa de Stael: “La prima volta che io vidi lo scheletro del Colosseo i miei occhi si riempirono di lacrime e mi nascondeva ai viventi per conversare coi morti e calcava con riverenza la polvere impressa un giorno dai piedi di Cesare e di Cicerone. Io vedeva e sentiva, l’immaginazione entrava tutta nel cuore e mi provava l’unione di queste due facoltà, fatte per aiutarsi, non per distruggersi. Questo mio genere di vita mi acquistava la riputazione di atrabiliare e di misantropo, ma qualunque sia il nome che mi hanno partorito i miei scritti, io lo debbo tutto a queste malinconiche sensazioni, che la fantasia vestiva poscia di immagini”.
Sono proprio le immagini le vere protagoniste della fantasia, anche politica, di Monti, lieto di ricantare in sé i ritmi e di riprodurre le cadenze di un mondo poetico già consacrato, di tutta una civiltà letteraria da tempo collaudata. L’argomento occasionale non riveste importanza, e così il poeta può mutare i pretesti ad ogni stagione, e non sentire il peso e la crucialità di certi trapassi: oggi si inneggia a ideali e a valori che domani susciteranno fredde reazioni e distaccati umori.
Eppure, a dispetto di questa pronunciata volubilità l’artista sente di osservare una sua fondamentale coerenza, e non riconosce ragione di rimproverarsi. Monti, come rileva il critico Luigi Russo, “vuole essere solo il custode musaico di belle forme e di bei ritmi”. Una grande letteratura, prima di chiudere un ciclo, giungeva – per opera di Monti – alla contemplazione, all’idoleggiamento di sé, alla sua estrema trasfigurazione canora.
Da questa temperie deriva la passione di Monti per la mitologia. In questa dimensione egli si ergeva a poeta di un passato glorioso, e il suo “Sermone sulla mitologia” rappresenta una mirata e robusta difesa da opporre all’ostilità dei romantici, che la mitologia, invece, la bandivano perché concepita come un’entità estranea rispetto al concreto e pragmatico fluire del presente. Leopardi rimpiangerà le favole antiche, come chi guarda, con struggente nostalgia, all’innocenza punteggiata dagli “ameni errori” della fanciullezza; preso da vibrante entusiasmo per gli “antichi iddii” che ancora vigilano sui destini della patria, Carducci canterà: “Vissero le ninfe, vissero, e un divino Talamo è questo”; D’Annunzio deprecherà che “lo spirito dormente” dell’uomo non vede più i venerandi numi che hanno “il fiato dei boschi entro le nari” e che fanno testimonianza di sé sui solenni gioghi dei monti, quasi invocasse un ritorno dell’umanità alle sue radici animali e vegetali.
Ciascuno di questi poeti aspira a creare una nuova mitologia, come una religione umana vivente. Monti, invece, insegue i vecchi miti non per ispirazione umana, ma per vocazione letteraria, per lo stesso gusto estetico che prova per essi, nonché per lo stupore che sperimenta nell’atto di ritessere le vecchie favole e di dare una veste di favola mitologica ai suoi stessi affetti presenti. In lui la mitologia non svapora nell’erudizione, sterile e stucchevole, ma è forma e sostanza del suo stesso spirito. Sebbene non sia uno scopritore di nuovi simboli umani, Monti si configura come il riecheggiatore delle vecchie finzioni poetiche, e di esse si fa traduttore estetico, felice e audace.