Espressione integrale di un fatalismo storico, Oblomov, protagonista dell’omonimo romanzo (1859) di Ivan Goncarov , si configura come l’eroe negativo della pigrizia. Provinciale idealista che vive, a Pietroburgo, della rendita di una vasta tenuta dimenticata nel segno della più assoluta inezia, fisica e psichica, Oblomov è il prodotto di una generazione che lo scrittore russo considera viziata e apatica, non ispirata da ideali e tantomeno sostenuta da una volontà di riscatto. Con un’ironia talora tagliente, Goncarov denuncia, attraverso la posa languida ed estenuata di Oblomov, i mali della società russa, anch’essa altrettanto smorta, ripiegata in sé stessa, restia ad avviare le necessarie riforme dell’epoca dirette a migliorare, anzitutto, le condizioni di vita delle classi meno abbienti.
Oblomov vive in una sorta di continuo dormiveglia. Non si degna nemmeno di vestirsi in modo sufficientemente decoroso, optando stancamente per sdrucite vesti da camera. Per la casa gira in pantofole, ma in realtà si muove raramente: passa infatti le giornate sdraiato sul divano. Solo in teoria ama leggere. Di libri ne ha, ma non li apre. Preferisce lasciarli sul pavimento, sparpagliati per terra: anche i libri, così trascurati, sembrano trasmettere un senso di rassegnato abbandono. Ma lo scarto che lo scrittore russo impone alla storia è dato dal fatto che il protagonista non è triste, non è oppresso da un’oscura malinconia, come ci si aspetterebbe considerando il contesto. Oblomov pare accettare questa dimensione di vita con una calma atavica, certo senza un sorriso, ma anche senza una lacrima. E coloro che lo vengono a trovare, e che vorrebbero scuoterlo dal cronico torpore, risultano irretiti da un dubbio di fondo che ne inibisce qualsivoglia iniziativa volta a redimere Oblomov. A che scopo salvarlo, si chiedono, se lui, in ultima analisi, si trova bene così?
Il fascino del protagonista, ha osservato il critico letterario Giorgio Manganelli, è di natura “teologica”, proponendosi egli come “la coscienza della necessaria imperfezione umana”. Il creatore, per non creare eternamente sé stesso, deve generare qualcosa che sia imperfetto e che contemporaneamente gli somigli, cioè sia tale da poter conoscere la propria imperfezione connaturata. “Questa imperfezione – afferma Manganelli – non è la morte ma, al contrario, la stessa vita, quel voler vivere senza sapere né capire, quell’essere vivi malgrado non ci sia in noi né conoscenza né significato”.
Gli altri personaggi del romanzo, tra i quali gli amministratori fraudolenti, vogliono, con ferma determinazione, vivere, e si comportano come se il vivere fosse cosa che da sé sola si giustifica e si spiega: ma in realtà essi non saprebbero dire perché questo volere vivere ha senso e plausibilità. In realtà, nella prospettiva narrativa di Goncarov, l’unico che “sa”, ovvero l’unico che è consapevole dell’imperfezione della vita è proprio Oblomov. Questa unicità gli vale lo status di eroe del romanzo, ma gli costa anche l’altissimo prezzo di una inclemente solitudine. Oblomov, infatti, è un eroe che può solo vivere la propria estraneità agli altri. E dove la può vivere? Dimorando nell’ombra, meglio ancora, nel sonno e quindi nel sogno. Ma soprattutto Oblomov per essere coerente alla sua “vocazione”, deve “non fare”, poiché fare è “vivere” senza coscienza dell’imperfezione del vivere.
Il protagonista, d’altro canto, non nutre sentimenti contro la vita. Non lo sfiora mai il pensiero del suicidio, l’atto supremo che reciderebbe con essa qualsivoglia legame. Preferisce piuttosto astenersi dalla vita, in modo sommesso e mite, senza ricorrere a gesti di aperta polemica o di acre opposizione. E di conseguenza, in questo scenario, Oblomov non pone nemmeno domande sui cosiddetti “massimi sistemi” che regolano l’universo: sa bene, infatti, che non riceverebbe risposta.