La giornata, per l’adolescente Proust, era passata scialba, senza sussulti. Ogni giornata trascorreva così. Ma un pensiero sempre lo confortava: quando, la sera, sarebbe andato a letto, avrebbe potuto fruire della sua “unica consolazione”, il bacio della buonanotte datogli dalla mamma. Ma, come scrive con malinconico abbandono ne “Alla ricerca del tempo perduto”, quella “buonanotte durava un amen”. Lei ridiscendeva così presto che il momento in cui la sentiva salire e poi nel corridoio a doppia porta avvertiva il lieve frusciare del suo abito da giardino in mussolina azzurra era per lui un “momento doloroso”. “Era il presentimento – osserva – che presto si sarebbe avverato, quando mi avrebbe lasciato e sarebbe ridiscesa”. Di conseguenza Proust sperava che quella “amata” buonanotte arrivasse il più tardi possibile, che si prolungasse la “tregua” durante la quale la mamma non era ancora venuta. A volte quando, dopo averlo baciato, la mamma apriva la porta per uscire, egli avrebbe voluto richiamarla e dirle di dargli “un altro bacio”. Tuttavia sapeva che sul suo volto aveva visto aleggiare subito un’ombra di disappunto, perché la concessione che faceva alla sua tristezza e alla sua agitazione – salendo a dargli quel bacio – irritava suo padre, che giudicava “assurdi” quei riti. Vederla infastidita, distruggeva tutta la calma di cui lo aveva “riempito” un istante prima, quando aveva chinato sul suo letto il suo “amorevole viso”, protendendolo verso di lui “come un’ostia per una comunione di pace”, dalla quale le sue labbra avrebbero attinto “la sua presenza reale” e “il potere di addormentarsi”.