Puskin fu definito da Gogol “un fenomeno straordinario e, forse, un fenomeno unico dello spirito russo”. A questo già lusinghiero giudizio Dostoevskij aggiunse “profetico”. “Sì – dichiarò l’8 giugno 1880, nel discorso pronunciato durante la seduta dell’Associazione degli amanti della letteratura russa – nella sua comparsa risiede per tutti noi russi qualcosa di indiscutibilmente profetico”. Puskin arriva all’alba dell’autocoscienza russa e la sua presenza “contribuisce notevolmente a illuminare di una luce nuova, che ci serve da guida, il nostro buio cammino”. Proprio per questo motivo egli Puskin, considerato il fondatore della lingua letteraria russa, si configura come profeta e guida.
Dostoevskij concorda con i critici i quali sostengono che lo scrittore, all’inizio della sua carriera, si sia ispirato ad alcuni poeti europei, come Chénier e Byron. Al contempo, tuttavia, tiene a precisare che anche i suoi primi poemi non erano semplici imitazioni, “tanto che già lì era evidente la straordinaria indipendenza del suo genio”. Nelle imitazioni non compare mai “un’indipendenza tanto sofferta” e “un’autocoscienza tanto profonda” come quella che si trova ne “Gli zingari”.
“Non parlo poi – osserva Dostoevskij – della forza creativa e dell’impeto, che non sarebbero stati quelli che sono se Puskin avesse solo imitato”. Nel personaggio di Aleko, protagonista de “Gli zingari”, si trova già un pensiero forte, perfettamente russo, espresso poi in tutta la sua armoniosa pienezza nell’”Oneghin”, dove un personaggio che è quasi identico ad Aleko “non appare in una luce fantastica, ma in carne ed ossa, reale e comprensibile”.
Con Aleko, lo scrittore ha già trovato e rappresentato in modo geniale “quel vagabondo infelice in patria, quello storico martire russo, storicamente così necessario, che è apparso nella nostra società così distante dal popolo”. Questi vagabondi russi senza fissa dimora continuano ancora la loro vita randagia e sembra che resteranno in patria ancora per molto tempo. “E se oggi – afferma Dostoevskij – non vanno più negli accampamenti di zingari a cercare i loro ideali universali, lontano dalla vita assurda della nostra società intellettuale, si imbattono comunque nel socialismo, e vanno a lavorare con zelo in un altro campo, credendo, come Aleko, che con la loro fantastica attività raggiungeranno i loro obiettivi e la felicità non solo per sé stessi, ma per tutto il mondo”.
Quando passa a trattare l’opera principale di Puskin, “Eugenio Onegin”, Dostoevskij ne celebra il realismo. In essa, infatti, trova esemplare espressione “la vera vita russa”, resa “con una tale forza creativa e con una tale perfezione che non è esistita prima di Puskin e forse nemmeno dopo di lui”. Il protagonista languisce nel suo disimpegno esistenziale. Dalla vita potrebbe cogliere doni preziosi, ma li respinge non comprendendone il valore. E quindi non arriverà a capire la grandezza d’animo di Tatiana, innamorata di lui. Non apprezzandola come dovrebbe, la perderà. Eugenio ostenta il suo svenevole pessimismo, venato di cinismo. Dichiara: “Son giovane, piena di forza è la vita mia. Cosa aspettarmi? Malinconia, malinconia”. In questa affermazione risiede il simbolo, triste e dimesso, della sua grigia esistenza. Il romanzo, evidenzia Dostoesvkij, contiene “strofe immortali”. Quando, ma è troppo tardi, Eugenio tenterà di portare a sé Tatiana, ella, ora sposata sebbene ancora innamorata di lui, afferma: “Ma a un altro uomo la mia sorte è unita, e a lui sarò fedele per la vita”.
“Questo – spiega Dostoevskij – è il sentimento della donna russa, e qui sta la sua apoteosi. E’ lei che esprime la verità del poema. In Tatiana trova forma e sostanza il coraggio, tipico delle russe. Quel coraggio che trae alimento anzitutto dalla consapevolezza della propria dignità e dal rispetto di sé stessi. Tatiana ama ancora Eugenio, ma rimarrà fedele a suo marito, un generale, che è un uomo onesto, che le vuole bene e che è fiero di lei. E’ vero che la madre “l’ha supplicata” perché sposasse questo generale, ma è stata Tatiana a dare il consenso al matrimonio. “La felicità – afferma Dostoevskij – non è solo nei piaceri amorosi, ma anche nella più alta armonia dell’animo. Come tranquillizzare questo animo, se dietro di noi c’è un atto disonesto e spietato?”. E dunque Tatiana “non poteva dire sì a Oneghin”. Sul no, sofferto e fermo, di questa eroina, si misura l’alta statura della dimensione morale che caratterizza, impreziosendola e nobilitandola, la narrativa di Puskin.
