Insignito del titolo di cavaliere dal re, proprietario di una splendida dimora nel Surrey e amato, fino alla devozione, dai suoi lettori: non poteva chiedere di meglio sir Arthur Conan Doyle. Eppure era costantemente tormentato da un fantasma che ne minava serenità e stabilità. Quel fantasma altro non era che la sua celeberrima creatura, Sherlock Holmes, che con il trascorrere del tempo aveva finito per acquisire una fama più grande di quella del suo creatore. Prima di Arthur Conan Doyle era stato Gustave Flaubert ad accanirsi contro la sua creazione per eccellenza, quella Madame Bovary che era diventata, anzitutto a Parigi, più importante di lui. Flaubert, confessò, avrebbe voluto ucciderla due volte (visto che nel romanzo già muore). In sintonia con lo scrittore francese si pose anche Doyle che fa fuori il detective in un racconto, per poi doverlo “resuscitare” dietro pressante, disperata richiesta dei lettori, delusi ed offesi.
La travagliata relazione tra Doyle e Holmes è ora il tema di una serie televisiva, in onda sulla Bbc, intitolata, non a caso, “Killing Sherlock” . E’ curata dalla brillante e competente storica Lucy Worsley, autrice, tra l’altro, di due avvincenti biografie dedicate a Jean Austin e ad Agatha Christie. In un articolo pubblicato su “The Times”, la storica ricorda che il primo romanzo, “Uno studio in rosso” (1887) era stato accettato da un editore dopo quattro falliti tentativi. Ricevette, per quel testo, 25 sterline: una ricompensa che l’autore definì “misera”, nonché “un insulto”.
Reduce da un’infanzia difficile, vissuta accanto ad un padre alcolizzato, Doyle era determinato, nella maturità, a condurre un’esistenza dignitosa e agiata che la carriera di scrittore, cui aspirava, avrebbe potuto garantire. La svolta arrivò poco dopo la pubblicazione di “Uno studio in rosso”, ovvero quando la prestigiosa rivista specializzata in gialli, lo “Strand Magazine”, comunicò che stava cercando scrittori di racconti brevi, con un detective fisso, capaci di “tenere il lettore avvinghiato alla sedia”. La proposta fu subito recepita da Doyle e dopo tre, quattro racconti, la sua popolarità crebbe in modo vertiginoso. In realtà, osserva Lucy Worsley, “il sogno nel cassetto” di sir Arthur era diventare scrittore acclamato di romanzi storici. Ma non ne aveva la stoffa: quella unica e pregiata era perfettamente tagliata su misura per Sherlock, nonché per l’inseparabile dottor Watson, altrettanto venerato dai lettori.
Il più acerrimo nemico di Holmes era il professore Moriarty. Infastidito dalla estesa notorietà anche di questa sua creazione, simbolo del male, lo scrittore decise di sbarazzarsi, una buona volta, di entrambi: nel racconto “L’ultima avventura” del 1893 li fa così precipitare da una cascata. Lo stesso giorno di quel luttuoso evento, con un cinismo asciutto ed essenziale, annotò nel suo diario: “I killed Holmes”. Da quel momento il detective prese le sembianze di un fantasma destinato a perseguitarlo. Ma fu sir Arthur a trovarsi presto nella condizione di alimentare egli stesso quella presenza inquietante, perché – essendo lui di gusti raffinati e dispendiosi, nonché amante dei viaggi – non poteva fare a meno di un robusto sostegno finanziario che solo Sherlock Holmes (con il suo infallibile fiuto, la sua pipa e la sua lente d’ingrandimento) poteva garantirgli. Dovette, dunque, suo malgrado, rimettere mano alla penna. Nuove avventure vennero così vergate, con grande sollievo dei suoi lettori.
La storica evidenzia che in tarda età sir Arthur aveva manifestato un forte interesse per le correnti filosofiche incentrate sul tema dell’al di là. La riflessione sulla vita dopo la morte, con le annesse dinamiche legate all’immortalità dell’anima, era diventata per lui una questione assillante. Ironia della sorte, fu proprio quella creatura da lui forgiata – che prima aveva ucciso e dopo resuscitato – a godere dell’immortalità. Anche di fronte a questo capriccio del destino, Sherlock Holmes – rivolgendosi al suo fido compagno con un ghigno sornione – avrebbe esclamato: “Elementare Watson!”.
