Pascoli ha indagato la poetica leopardiana con gli stessi strumenti con cui ha plasmato la sua. Da questa impostazione è derivato un marcato svisamento critico. Nel saggio “Il sabato” egli modula una variazione paesistica alla luce dei luoghi leopardiani – nel segno di un abbandonato indugio all’atmosfera della stagione e dell’ora – così da suscitare un quadro che, mentre è intriso di gusto pascoliano, risulta quanto di più estraneo si possa immaginare alla sensibilità del recanatese. Il pallore degli ulivi, il candore del mandorlo, il roseo del pesco, il contadino dalla faccia rugosa ai bagliori del sole, la vecchierella che ha sul capo un piccolo fascio di stecchi, lo scampanio fioco di voci lontane: sono questi colori e tratti – sottolinea Giovanni Getto – ignoti alla sobria tavolozza e al pennello “castissimo” di Leopardi.
Emilio Cecchi individuava il limite della cultura pascoliana nella “servitù” della sua mente al particolare. “L’adorazione – scrive – che egli ha per il dettaglio, la suggestione che esso esercita su di lui, gli impediscono di comporre sintesi di particolari, e di tracciarsi in qualche modo una carta di navigazione, sebbene rudimentale, in quel mare di fatti minuti che è la sua scienza, ricca come forse poche altre tra i letterati contemporanei”.
Scrive Pascoli: “Leopardi è il poeta a me più caro perché è il più fanciullo; sto per dire il più fanciullo che abbia l’Italia nel canone della sua poesia”. Si assiste dunque all’esplicita sovrapposizione della poetica pascoliana alla poetica leopardiana. Proprio in quel periodo il poeta di San Mauro andava elaborando il “fanciullino” e, a suo modo, lo fa incarnare dal recanatese.
Pascoli si muoveva verso i particolari, vita delle cose e anima di ogni poesia; Leopardi si muoveva verso il generico, perché si sforzava di collocarsi su un piano dove si smorzasse ogni concretezza troppo vistosa e vivace. Di conseguenza si genera un attrito e una interpretazione distorta del verbo leopardiano. Pascoli, irrequieto, segue sé stesso in Leopardi, cui rimprovera l’indifferenza al particolare figurativo e nomenclatorio. E lo taccia di “indeterminatezza”. Ma è proprio questa blanda precisione cronachistica che Leopardi intendeva evitare e bandire, nella consapevolezza che la vera poesia consiste nel vago, nell’indefinito, nell’accenno appena velato e discretamente sussurrato.