Che cosa lo scrittore borghese deve riflettere al suo pubblico? Per rispondere a questo interrogativo, Jean-Paul Sartre ha una ricetta ben chiara e definita, illustrata nel suo lungo saggio “Che cos’è la letteratura?”. Gli ingredienti sono l’idealismo, lo psicologismo, il determinismo, l’utilitarismo e la serietà. Allo scrittore borghese non gli si chiede più di rendere “l’estraneità” e “l’opacità” del mondo, ma di dissolverlo in impressioni “elementari” e “soggettive” che ne rendano più facile la digestione. “Le sue opere – scrive il filosofo francese – sono insieme inventari della proprietà borghese, perizie psicologiche che tendono invariabilmente a garantire i diritti dell’élite e a porre in evidenza la saggezza dele istituzioni, e infine manuali di buone maniere”.
Le conclusioni sono tratte in anticipo. Si è già stabilito il grado di profondità concesso all’indagine: i mezzi psicologici sono stati selezionati e si è codificato anche lo stile”. Il pubblico, osserva Sartre, non deve temere sorprese, e può così “comperare ad occhi chiusi”. Ma la letteratura è stata “assassinata”. Da Marcel Prévost a Dumas figlio, si sono trovati autori adatti alle circostanze e, “se mi è lecito dirlo”, scrive, capaci di “fare onore fino in fondo alla loro firma”. Non per nulla “hanno scritto libri così brutti”. Se anche avevano ingegno, “hanno dovuto nasconderlo”.
I migliori scrittori si sono opposti. Il loro rifiuto ha salvato la letteratura, ma ne ha fissato i tratti caratteristici per cinquant’anni. Infatti, a partire dal 1848 fino alla guerra del 1914, “unificazione completa del pubblico induce lo scrittore a scrivere contro tutti i suoi lettori”. Vende, è vero, le sue opere, “ma disprezza chi le compra”, e si studia di deluderne le aspettative. “E’ sottinteso – afferma il filosofo – che è meglio essere misconosciuto che celebre, e che il successo, se mai l’artista lo ottiene da vivo, è spiegabile solamente con un equivoco. Se per caso il libro pubblicato non urta abbastanza, gli si aggiungerà una prefazione per insultare. Questo conflitto fondamentale fra lo scrittore e il suo pubblico è un fenomeno senza precedenti nella storia della letteratura”.
Nel XVII secolo l’accordo fra letterato e pubblico era “perfetto”, e durante quel secolo l’autore disponeva di due pubblici ugualmente reali e poteva, a suo arbitrio, appoggiarsi all’uno e all’altro. “Il romanticismo – scrive – è stato ai suoi inizi un vano tentativo di evitare la lotta aperta restaurando la dualità e facendo leva sull’aristocrazia per schierarsi contro la borghesia liberale”. Ma dopo il 1850 non fu più possibile “dissimulare” la contraddizione profonda che contrapponeva l’ideologia borghese alle esigenze della letteratura. In quegli anni “un pubblico virtuale” già si profilava negli strati profondi della società e “già attendeva di essere rivelato a sé stesso”. La causa dell’istruzione gratuita e obbligatoria ha fatto “grandi passi”: presto la Terza Repubblica consacrerà il diritto che hanno tutti gli uomini di saper leggere e scrivere. Che cosa dovrà fare lo scrittore? Opterà per la massa contro l’élite e tenterà di ricostruire a suo vantaggio la dualità dei pubblici?
“A prima vista sembrerebbe di sì”, osserva il filosofo, il quale ricorda che, favoriti dal grande movimento di idee che agitò dal 1830 al 1848 le zone marginali della borghesia, certi autori hanno avuto la rivelazione del loro pubblico virtuale. Lo chiamano “Popolo” e lo adornano di mistiche grazie. Ma anche se lo amano, non lo conoscono affatto, e soprattutto non derivano dal popolo. “La Sand – precisa Sartre – è una baronessa Dudevant, Hugo è il figlio di un generale dell’Impero. Persino Michelet, che è figlio di un tipografo, è ancora ben lontano dagli operai dei serifici di Lione o dai tessili di Lilla. Il loro socialismo, quando sono socialisti, è un sottoprodotto dell’idealismo borghese. E poi il popolo è l’argomento di alcune loro opere, piuttosto che il pubblico che hanno eletto”.
Per il filosofo, Hugo è uno dei pochi, “forse il solo dei nostri scrittori”, che sia “veramente popolare”. Gli altri, invece, si sono attirati l’inimicizia della borghesia senza crearsi, come contropartita, un pubblico di lavoratori. “Per convincersene – evidenzia Sartre – basta confrontare l’importanza che l’università borghese accorda a Taine, che fu solo un pedante, o a Renan, il cui ‘bello stile’ offre tutti gli esempi possibili di bassezza e di cattivo gusto”. Quindi aggiunge che il purgatorio dove la classe borghese lascia vegetare Michelet è senza compenso. Il popolo che egli amava lo ha letto per qualche tempo e poi il successo del marxismo l’ha respinto nell’oblio. “Insomma – conclude Sartre – la maggior parte di questi autori è vittima di una rivoluzione mancata, alla quale hanno congiunto il loro nome e il loro destino. Ma nessuno di loro, salvo Hugo, ha lasciato un’impronta nella letteratura”.