In una lettera di marzo del 1886, inviata all’amico John Addington Synod, lo scrittore scozzese Robert Louis Stevenson tesse le lodi di Dostoevskij, mostrando una particolare predilezione per “Delitto e castigo”, “il più grande libro che abbia letto negli ultimi dieci anni”. E si rallegra con l’amico che lo ha appena acquistato. Stevenson si dice “sbalordito” dal fatto che molti lettori abbiano giudicato il romanzo “noioso”, e cita lo scrittore statunitense Henry James, il quale aveva affermato che più volte aveva tentato di finirlo, senza mai riuscirci. James non apprezza Raskol’nikov perché non è “oggettivo”, quindi non credibile: al contrario, per Stevenson l’umanità del protagonista è resa con una lucidità penetrante.
La sua figura si incastra perfettamente in un’opera che assume le sembianze di una “stanza”, dove i vari personaggi entrano e nella quale vengono “torturati”, per poi uscirne “purificati”. Stevenson elogia la figura del giudice istruttore, creazione “meravigliosa” e “toccante”, come pure si inchina alla grandezza di Sonia, sintesi di “grazia lieve, di indomito coraggio e di ferrea determinazione”.
Ai detrattori che contestavano al romanzo di essere, a tratti, frammentario e diseguale, Stevenson replica che il vero equilibrio sta nell’incoerenza, intesa come espressione di un’armonia interiore capace di sublimare – coordinandole con magistrale abilità – tensioni, pulsioni e contraddizioni. Un’incoerenza, dichiara, che è esclusiva prerogativa dei grandi scrittori.