Fu il cantore, appassionato e fiero, del Sud degli Stati Uniti, Tennessee Williams. Una sorta di Arcadia si venne a configurare come agguerrita antitesi al progredito Nord. Ma l’industria sconfisse le piantagioni (il Sud fu segnato dalla guerra civile e dalla grande depressione) e il canto dello scrittore, drammaturgo e poeta statunitense, finì per ammantarsi di una vibrante nostalgia, tesa a richiamare un passato idealizzato, calato nel mito. La produzione teatrale è specchio fedele di questo travagliato sentimento, e le figure femminili scolpite da Williams si ergono ad esemplificazione di un mondo in cui il divario tra realtà e sogno è tanto vasto quanto impietoso.
Blanche DuBois, protagonista di “Un tram che si chiama Desiderio” (1947), veniva da una famiglia benestante, di proprietari terrieri, ma la sua piantagione – a seguito di una grave crisi finanziaria – è andata perduta. Non le rimangono, ora, che sessantacinque centesimi. Da giovane era stata molto bella, adesso vive nell’ossessione di una bellezza destinata a sfiorire. Sperimenta questa angoscia in una solitudine insidiosa e spiazzante. In lei, dunque, convergono gli elementi fondanti della narrativa di Williams: il rovello interiore che scava nella psiche di ogni personaggio, anche di quelli comprimari; la dolorosa consapevolezza dell’incapacità di stabilire con il mondo esterno un dialogo sereno; il senso della graduale deriva di un passato che mai tornerà a riscattare un presente percepito come fallimentare. La porterà al manicomio il suo burrascoso con Stanley, il marito della sorella, un uomo che fa della virilità pronunciata e sguaiata il suo punto di forza.
E’ indicativo che proprio nel momento in cui i personaggi di Williams entrano in contatto – un contatto che diventa presa di possesso – si manifesta con maggiore enfasi la solitudine della persona. Per quanto ciascuno cerchi di comunicare con l’altro, ogni tensione alla condivisione è votata allo scacco. Ne consegue una collisione di monadi. Sebbene i tormenti dei diversi personaggi abbiano spesso una scaturigine comune, non si sviluppa una sintesi di solidarietà in cui trovare conforto. Le sofferenze assumono le sembianze di frammenti sparpagliati, irriducibili ad un unico nucleo. All’umanità, dunque, non arride una redenzione attingibile dal disvelamento, senza diaframmi, di lacrime e singhiozzi.
Insomma i personaggi di Williams sembrano vivere rinchiusi in una gabbia, dalla quale non è possibile evadere. Ne è testimonianza Laura, protagonista de “Lo zoo di vetro” (1944). Soverchiata dalla timidezza, che le impedisce di aprirsi con fiducia alla realtà, ella collezione e custodisce con amorevole cura animaletti di vetro. La madre, Amanda, fa ogni sforzo per trovarle un uomo da sposare. Quando Jim (un amico del fratello e già promesso ad un’altra ragazza) fa cadere un unicorno di vetro che fa parte della collezione, spezzandogli il corno, il presunto sogno si frantuma. Jim, infatti, era stato invitato a cena: una cena che avrebbe dovuto suggellare l’unione tra i due giovani. Il claustrofobico zoo di vetro, in cui si consuma l’esistenza grigia di Laura, è tanto rassicurante quanto fragile: basta un urto per ridurlo in schegge.
La verità profonda comunicata dallo scrittore è che non è solo la vita di Laura a specchiarsi in quel vetro. Esso riflette anche i tormenti di una madre e del fratello, anch’essi incapaci di integrarsi nel tessuto della realtà quotidiana. Il pregio di Laura consiste nell’accettare con matura umiltà la sua condizione di emarginata (a Jim regalerà l’unicorno spezzato come regalo di nozze prima di chiudersi in un ostinato silenzio): uno stile di comportamento, il suo, trasparente come il vetro che, per quanto fragile, le fa da scudo contro gli strali del destino.
Non è certo meno incisivo il profilo di Maggie, la protagonista de “Il gatto sul tetto che scotta” (1954). Nella sua figura si consuma il dissidio tra una moglie alla disperata ricerca di riacquistare l’amore di un marito tormentato dai sensi di colpa e di una donna convinta del valore della propria indipendenza e che dunque non intende accettare nessun compromesso. Anche in questa circostanza è evidente l’incapacità tra i due protagonisti di comunicare, senza infingimenti, i propri sentimenti e le proprie angosce. Di conseguenze si viene a creare uno scenario dominato dall’ipocrisia (lei fingerà di essere incinta per compiacere la famiglia di lui), concepita come unico mezzo per trasmettere mezze verità e per rimanere a galla nella burrascosa tempesta della vita. E’ sincero o falso il bacio – suggello ad un’apparente riconciliazione dopo ruvide schermaglie verbali – che alla fine marito e moglie si scambiano? Non è dato saperlo. Tra le sbarre delle rispettive gabbie i due sono comunque riusciti a stabilire un contatto.