Nell’accezione sveviana, la contemplazione – uno dei cardini del pensiero di Schopenhauer, che una robusta influenza esercitò sullo scrittore triestino – si traduce nell’ascesi e nel rifiuto dell’azione, mentre nel filosofo tedesco essa aveva una valenza positiva e dinamica. Per Svevo l’individuo contemplatore è privo di quella spregiudicatezza propria, invece, dell’individuo lottatore, che permette di tollerare senza avvilimenti la vita borghese. Il Macario di “Una vita” è un personaggio di sconcertante mediocrità, che ritiene inutile, addirittura dannosa, l’attività intellettuale. Tuttavia, proprio questa sua concezione gli consente di praticare un facile dominio sugli individui contemplativi, destinati a soccombere, come i pesci “fatti per pescare e mangiare”, ad opera dei gabbiani. Dice Macario rivolgendosi ad Alfonso Nitti, il protagonista del romanzo: “E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce, non gli crescono mai più. Chi non per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare”.
L’inettitudine è un tema centrale nella narrativa di Svevo. Ne “L’assassinio di via Belpoggio” il protagonista ha un carattere “poco energico, inerte”. Un’amara ironia sta nel fatto che le ali che il gabbiano usa sulla preda gli servono tutt’al più per nascondervi la testa, per isolarsi, sognando voli poetici. Per gli inetti non c’è posto in una società fondata sulla brutale competizione. Una società selettiva, che emargina gli intellettuali più sensibili, gli spiriti speculativi.
In “Una vita” Alfonso prova soddisfazione nello scoprirsi immune dalle debolezze che inficiano gli altri, i quali sono in lotta “per il denaro e per gli onori”. Andava “superbo” della propria superiorità. “Quando entrava in biblioteca o nella sua stanzuccia, egli usciva perfettamente dalla lotta; nessuno gli contendeva la sua felicità, egli non chiedeva nulla a nessuno”. Ma la superiorità, intellettuale e morale, di Nitti è solo un’illusione. La stanzuccia e la biblioteca simboleggiano un isolamento volontario e assoluto, e tradiscono il timore che la felicità costruita come trama di un sogno possa essere cancellata dal mondo esterno e dagli urti che da esso derivano. Anche ne “La coscienza di Zeno” ricorre questa tematica, sebbene essa si esprima attraverso una dimensione più distaccata e ironica. Giovanni Malfenti è un maestro del commercio, “un grande negoziante, ignorante e attivo”. “Ma dalla sua ignoranza – scrive Svevo – gli risultava forza e serenità ed io m’incantavo a guardarlo, invidiandolo”. Il Malfenti aveva un corpo enorme. Nella sua grossa testa si muovevano “poche idee”, ma erano da lui svolte “con tanta chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere”. Di queste idee Zeno era “povero”. Allora decide di “attaccarsi a lui” per arricchirsi. Dice il protagonista: “Questa è la verità. Io sono un timido!”. Non sarebbe approdato a questa consapevolezza se non avesse conosciuto, e studiato, Giovanni. In un appunto del 1896 Svevo scrive: “Io non sono buono di conquistare nulla. Io non voglio conquistare nulla. Io voglio avere e tenere senza sforzo. Altrimenti la vita diventa per me sgradevole, piena di responsabilità e di minacce. Se non posso avere e tenere senza sforzo, io volentieri rinunzio, senza esitazione rinunzio”.