La critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito di amore. In modi evidenti, e tuttavia misteriosi, una poesia, un romanzo, un dramma afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo il libro “non siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo”. Scandisce, con solennità, questa piccola grande verità l’illustre critico letterario francese, George Steiner, nell’ambito del saggio “Tolstoj o Dostoevskij” (1995). La sua è una riflessione profonda, a tratti dall’accento accorato, sulla missione cui è chiamato il critico. E a quell’accento accorato si lega anche una vibrazione polemica e malinconica nel constatare il cambiamento (non in meglio) intervenuto riguardo al modo di leggere e di interpretare un testo.
“Le grandi opere d’arte – scrive – ci attraversano come venti di tempesta, spalancando le porte delle nostre percezioni e investendo l’architettura delle nostre convinzioni con la loro potenza conservatrice. Noi cerchiamo di registrare il loro urto e di riorganizzare la nostra casa sconquassata secondo un nuovo ordine”. Allora, spinti da un primario istinto di comunione, viene esperito il tentativo di comunicare agli altri la qualità e la forza della nostra esperienza. Si vorrebbe convincerli ad aprirsi ad essa. “E’ da questo sforzo di persuasione – dichiara – che nascono le intuizioni più vere della critica”.
Steiner fa questa valutazione perché “la maggior parte della critica contemporanea appartiene a tutt’altra tendenza”. Essa è “criptica, capziosa, esageratamente consapevole della sua discendenza filosofica e della complessità dei suoi strumenti” e tende “a seppellire più che a elogiare”. In effetti esiste una grande quantità di opere che meriterebbero di andare al macero, se si vuole tutelare la salute della lingua e della sensibilità. Troppo libri, invece di arricchire la nostra coscienza, ci tentano con “le armi della facilità, della grossolanità e del più effimero dei piaceri”. Ma quelli sono i libri destinati al mestiere del recensore, non all’arte meditativa e ricreatrice del critico.
Secondo Steiner, a differenza sia del recensore sia dello storico della letteratura, il critico dovrebbe occuparsi di capolavori. “Il suo primo compito – afferma – è quello di distinguere non tra il buono e il cattivo, ma tra il buono e l’ottimo”. Anche in questo caso la sensibilità moderna si dimostra più diffidente. Con l’allentarsi dei cardini su cui si basava il vecchio ordine culturale e politico, essa ha perduto quella serena certezza che permetteva al critico Matthew Arnold, nelle sue lezioni di Omero, di riferirsi ai “cinque o sei poeti supremi”. Ora questo tipo di espressione non sarebbe usata. “Siamo diventati – lamenta – dei relativisti penosamente consci del fatto che i principi critici sono solo tentativi di imporre periodici governi alla intrinseca mutevolezza del gusto. Con il declino dell’Europa come perno della storia, siamo meno certi che la tradizione classica e occidentale sia davvero quella fondamentale”.
Gli orizzonti dell’arte si sono spalancati sul tempo e sullo spazio oltre ogni possibile controllo. Due tra le raccolte poetiche più rappresentative della nostra epoca, “La terra desolata” di T.S. Eliot e i “Cantos” di Ezra Pound, attingono al pensiero orientale. Le maschere del Congo c fissano “minacciose e distorte” dai quadri di Pablo Picasso. “Le nostre menti -evidenzia – sono offuscate dalle guerre e dalle atrocità del ventesimo secolo, siamo divenuti consapevoli dei nostri retaggi”.
Di fronte a questo scenario, tuttavia, Steiner invita a non cedere le armi. “E’ nell’eccesso di relativismo che alligna il germe dell’anarchia – rileva -. La critica dovrebbe esortarci a ricordare la grandezza del nostro lignaggio, ovvero la straordinaria tradizione dell’epica nel suo dispiegarsi da Omero a Milton, gli splendori della drammaturgia ateniese, elisabettiana e neoclassica, i maestri del romanzo”. Nello stesso tempo la critica dovrebbe affermare che Omero, Dante, Shakespeare e Racine non sono più i poeti supremi del mondo, che è diventato troppo vasto perché possano esistere simili supremazie. Essi restano comunque i riferimenti ineludibili da cui la nostra civiltà trae la sua forza vitale e di cui “non può non ergersi a difesa”.