Passaggio di consegne. Dopo aver letto “Il fu Mattia Pascal” Giovanni Verga lasciò una sorta di delega a Luigi Pirandello, che gli aveva dato una copia, fresca di stampa, del romanzo durante un incontro nella redazione della “Nuova Antologia” (dove l’opera era stata pubblicata a puntate, prima di essere raccolta in volume nello stesso anno, il 1904). A distanza di sei giorni, Verga ricambiava il dono con una lettera in cui l’autore de “I Malavoglia” diceva di sentirsi “ormai sorpassato dai tempi”. Vedeva infatti “spegnersi la sua lucerna accanto alla quale si accendeva il lumicino dell’arte mia”. Verga scorgeva nel buio della scena ottocentesca – che era ancora la sua – i prodromi di un’altra scena, ora novecentesca: quella pirandelliana.
Intuiva, come acutamente osserva il critico Nino Borsellino, “la presenza non più del personaggio che vive, anzi lotta per la vita, ma del personaggio che si sente vivere”.
Tale passaggio di consegne avrebbe di lì a poco comportato una trasformazione radicale dell’ottica narrativa, consistente nel muovere dalla “focalizzazione convergente” del verista alla “deformazione strabica” dell’umorista.
Tuttavia tra i due scrittori non si stabiliva solo una differenza, pur fondamentale. Si confermava, anche, un elemento comune e condiviso, che si specchiava nella cosiddetta “sindrome insulare”, tipica del comportamento dei siciliani. Scrive, in merito, Pirandello: “I siciliani, quasi tutti, hanno un’istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno aperta, chiara di sole”.
Con il tempo l’insularità di Pirandello, che si definiva “un viaggiatore senza bagagli”, si risolverà nello spazio europeo. Allora, l’isola, perdendo, o comunque sfumando, i suoi confini geografici, si configurerà come il luogo privilegiato dell’immaginario pirandelliano. La Sicilia non sarà più per lui, come lo fu invece per i veristi, il contesto dove i fatti sono autenticati da precise circostanze ambientali, ma il microcosmo deputato di un’esasperazione esistenziale la cui fenomenologia ha continue repliche altrove, anzitutto nei meccanismi che il borghese mette in azione dopo aver constatato la sua crisi di identità.
Dalla Sicilia Pirandello si trasferirà presto nella Roma umbertina (qui stabilirà il suo “osservatorio” sulla vita e sulla storia), ovvero in “quell’acquasantiera ridotta a portacenere”, come scrive ne “Il fu Mattia Pascal”.
Fu proprio a Roma che lo scrittore potè recuperare un più genuino rapporto con l’isola. E fatte salve le dovute differenze, è possibile stabilire un parallelismo tra il ritorno alla Sicilia di Verga e quello i Pirandello. Infatti, rileva Borsellino, sia l’uno che l’altro – Verga senza le dimore fiorentina e milanese, Pirandello senza quella romana – sarebbero rimasti “scrittori siciliani solo di nascita”. Anche per Pirandello, dunque, l’identità politica siciliana fu un’acquisizione “da lontano”, dopo il suo distacco dalle origini e in attesa dell’ultimo ritorno.