E’ una delle pagine più eccelse della letteratura quella che descrive la morte di Anna Karenina. Nell’atto del suicidio irrompe il sentimento religioso, che si manifesta sotto forma di pentimento. Tuttavia non c’è tempo perché si passi dalla resipiscenza al riscatto di sé: il sacrificio è destinato a compiersi. Prima di gettarsi sotto il treno, la protagonista dell’omonimo romanzo di Tolstoj si fa il segno della croce. “Quel gesto consueto riaccese nel suo cuore una moltitudine di ricordi di infanzia e di gioventù, il buio che aveva stretto ogni cosa si squarciò e per un attimo la vita le si offrì con tutte le gioie radiose del passato. Gli occhi, però, restavano fissi sulle ruote del secondo vagone, ormai vicino”. Uno scenario che – sempre nel segno del sentimento religioso – richiama un’altra pagina memorabile: quella in cui è narrata l’agonia di Emma Bovary, “la peccatrice” avvelenatasi con l’arsenico, che, al crocifisso che le viene porto dal prete, imprime “il bacio più grande che avesse mai dato”.
Dopo aver messo a terra la sacca rossa, Anna si lascia cadere sotto il treno. Cade sulle mani, ma con un lieve sussulto si ritrova in ginocchio, quasi volesse rialzarsi. E in quello stesso istante inorridisce. “Dove sono? Che cosa sto facendo? Perché?”. Avrebbe voluto tirarsi su e avrebbe voluto togliersi da lì, ma “qualcosa di gigantesco, di inesorabile la colpì alla testa e la trascinò con sé. “Signore perdonami” dice, sentendo vana ogni possibilità di resistenza. “E la candela accanto alla quale Anna – scrive Tolstoj – aveva letto il suo libro di ansie, inganni, dolore e rabbia brillò di una luce vivida, più vivida che mai, rischiarando quanto prima era avvolto dalle tenebre. Poi crepitò, tremula, e si spense per sempre”.
Nel rivisitare il romanzo, Natalia Ginzburg afferma che in “Anna Karenina” è rappresentata la colpa come “una barriera invalicabile” al raggiungimento della felicità. Invece, al di fuori della colpa, per chi ha creato senza nulla distruggere la felicità fiorisce e germoglia. Accanto ad Anna e a Vronskij, che non possono essere felici insieme, si collocano Levin e Kitty, i quali riescono ad ottenere, a dispetto di qualche logorante dibattito interiore, quello che è negato agli altri due. Kitty ha saputo dimenticare Vronskij, rinunciando così agli ideali poetici della sua giovinezza. Al contempo, tuttavia, ella scopre, sottolinea la Ginzburg, che “la realtà usuale e consueta, lungi dall’essere meschina e squallida, è assai preziosa e assai bella”.
Anna non verrà mai a conoscere questa realtà. La sua vita con Vronskij non diventerà mai reale, perché “egli non perderà mai l’incanto ai suoi occhi del primo incontro, restando sempre per lei come un bene inafferrabile”. Anna è incapace di amare la figlia che ha avuto con Vronskij, non soltanto perché l’affetto del figlio legittimo, lontano, la tormenta e le inibisce ogni nuovo sentimento materno, ma anche perché dalla sua passione per il conte non può sorgere “nulla di creativo, nulla di giusto”. Quello che può emergere è solo gelosia e rancore.
Prima di incontrare Vronskij, Anna era una donna calma e lieta, che “dava fiducia e pace a chiunque l’avvicinasse”. Ma dopo quel fatidico incontro, la sua sicurezza si sgretola e improvvisamente si rende conto del “pauroso vuoto che ha intorno”. Nella nuova vita che si inizia per lei, ella cerca inutilmente di unire all’amore alcuni piaceri che avevano reso gradita la sua vita di prima: le consuetudini sociali e mondane, la simpatia e il consenso degli amici e dei conoscenti.
Tuttavia ogni suo tentativo fallisce quando, a teatro, si vede offendere pubblicamente da una signora, indignata di incontrarsi in società con una donna che ha abbandonato il marito. E’ questo il suggello che sancisce per lei il divieto all’accesso (prima accordatole) alla cosiddetta “vita di mondo”.
Punizione ancor più bruciante è il fatto che non potrà più rivedere il figlio legittimo, Sereza, se non per sotterfugi e per brevi istanti.
Nella sua vita con Vronskij, comunque, Anna – mette in rilievo la Ginzburg – non prova rimpianto per la sua vita passata perché, avendo conosciuto l’amore, la felicità di allora le appare artificiosa e vuota. Poche ore prima di uccidersi, ella ripensa al proprio rapporto con il marito: in quel momento rivede gli occhi spenti di lui e le mani dalle vene turchine. “Ne ha un brivido di disgusto – evidenzia la Ginzburg -. Ella dunque non ha neppure la voluttà dolorosa della nostalgia”.
Così la protagonista muore a mani vuote. Ella non ha conquistato nulla. Stessa sorte tocca a Vronskij, che non approda a niente. Quando, dopo la morte di Anna, parte volontario contro i Turchi, anche questa decisione per lui non riveste alcun significato: la sua missione, scrive la Ginzburg, “non è che un mezzo per sfuggire al ricordo del corpo insanguinato di Anna”.