La fine di un’illusione. Si è sgretolata la pretesa del dominio dell’uomo sulla natura, della “massima felicità per il massimo numero di persone”, nonché dell’illimitata libertà personale. Ben presto il socialismo e il comunismo hanno cessato di essere movimenti che si prefiggevano lo scopo di costruire “una nuova società e un nuovo uomo” per far proprio l’ideale di una vita agiata per tutti, indicando nel “borghese universalizzato” gli uomini e le donne del futuro. Il raggiungimento del benessere e delle comodità per tutti avrebbe come risultato, così si credeva, la felicità senza restrizioni per tutti. Tale obiettivo non è stato raggiunto e così la “Grande Promessa” si è infranta.
E’ vibrante la denuncia – formulata da Erich Fromm nel libro “Avere o essere?” (1976) – di un fallimento dovuto anzitutto alle contraddizioni economiche alla base del processo di industrializzazione e poi accelerato da un “edonismo radicale” praticato da coloro che cercano di dare un senso alla propria vita attraverso il piacere “senza restrizioni di sorta”. Il filosofo tedesco afferma che la prevalenza della modalità esistenziale dell’avere ha determinato la situazione dell’uomo contemporaneo: ridotto ad ingranaggio della macchina burocratica, manipolato nei gusti, nelle opinioni e nei sentimenti dai governi, dall’industria e dai mezzi di comunicazione sociale, l’individuo è costretto a vivere in un ambiente degradato. Di fronte a questo inquietante scenario, From delinea – come reazione e come riscatto – le caratteristiche di un’esistenza incentrata sulla modalità dell’essere, in quanto attività creativa e produttiva, capace di offrire alla persona e alla società la possibilità di realizzare un nuovo e più profondo umanesimo.
Tale aspirazione può essere soddisfatta assumendo anzitutto la consapevolezza delle “enormi difficoltà” dell’impresa. Occorre poi risolvere il problema di come continuare la produzione industriale senza ricorrere ad una centralizzazione totale, vale a dire “senza sfociare nel fascismo vecchi stampo, in un fascismo tecnologico dal volto sorridente”. Fromm quindi sottolinea la necessità di rinunciare all’obiettivo della crescita illimitata per sostituirla con una crescita selettiva. C’è il dovere di creare condizioni di lavoro in cui a contare non sia solo il guadagno materiale, ma anche e soprattutto “la soddisfazione psicologica”. Non meno importante è lo scopo che mira a favorire lo sviluppo scientifico evitando, al contempo, che il progresso diventi “un pericolo” per la specie umana a causa delle sue applicazioni pratiche.
Il pensatore punta poi il dito contro “la logica immanente dell’attuale capitalismo”, in forza del quale aziende e governi divengono sempre più vasti e finiscono per trasformarsi in “giganteschi organismi” amministrati in maniera verticistica attraverso un complesso organismo burocratico. Per Fromm, uno dei requisiti di una vera società umanistica è la cessazione del processo di centralizzazione, alo posto del quale deve intervenire “una decentralizzazione su vasta scala”. Se la società si trasforma in una “megamacchina”, se cioè la società viene a configurarsi come un meccanismo a direzione centralizzata, nel lungo termine gli individui diventeranno soggetti passivi, perderanno la capacità di pensare criticamente e assumeranno un atteggiamento qualunquistico.