Sembrava solo un capriccio passeggero, del resto dettato da un futile motivo, quello di aver rifiutato di mangiare un piatto di lumache. Tale capriccio aveva indotto Cosimo Piovasco di Rondò – protagonista de “Il barone rampante” di Italo Cavino – a salire su un elce che torreggia nel giardino di casa: un atto di sfida lanciato contro la sua famiglia, di nobile lignaggio. Il padre, la madre, il fratello e la sorella pensavano che “da lì a cinque minuti” il ribelle Cosimo (che diventerà barone alla morte del padre) sarebbe ridisceso da quell’albero e che la quieta e collaudata normalità si sarebbe ristabilita. Si sbagliavano. Appoggiato sul davanzale, il padre (non amato da Cosimo), visto che il figlio, contro le sue aspettative, rimaneva fermo su uno dei rami dell’elce, gli gridò: “Quando sarai stanco di star lì, cambierai idea!”. Di rimando, Cosimò dichiarò: “Non cambierò mai idea!”. Con tono altero e alterato, il padre così lo apostrofò: “Ti farò vedere io, appena scendi!”. Quindi seguì la replica di Cosimo, che vibrò con la solennità di un verdetto: “E io non scenderò più!”. E mantenne la parola.
Nel vorticare degli avvenimenti, ambientati nel Settecento – con Cosimo che passerà con abilità circense da un albero all’altro – l’elce assurge a simbolo della volontà, salda e ostinata, del protagonista di stabilire con il mondo una distanza: minima, sì, ma invalicabile. Nel suo soggiorno a mezz’aria, Cosimo talvolta si distrae, qualche volta si assopisce, rischiando dunque di cadere. A quel punto avrebbe toccato terra e, a suo disdoro, avrebbe perso la scommessa, nella quale il ragazzo di dodici anni aveva investito la sua dignità di giovane che osa “porsi in controtendenza rispetto al regolare e scontato flusso della vita”. Riuscirà sempre, aggrappandosi all’ultimo momento ad una sporgenza bitorsoluta dell’elce, ad evitare il fatidico contatto con il suolo.
L’albero, nel corso della narrazione, assume sempre più il valore di un rifugio. Saranno numerose le tentazioni per Cosimo di ritornare “nel mondo degli umani”. Conoscerà, infatti, l’amore per la coetanea Viola. Tuttavia anche su questo fronte il ragazzo non recede. E l’incipiente storia d’amore, che non poteva fare a meno del contatto terragno, svapora. In lui si agita uno spirito di avventura che finisce per identificarlo come una figura divorata dal desiderio di indipendenza dagli altri, e contro gli altri, per assorbire, nel mondo più esaustivo possibile, i diversi umori della vita. E in lui spicca il richiamo ad altri personaggi illustri della letteratura, quali Robinson Crusoe e Phileas Fogg (protagonista de “Il giro del mondo in ottanta giorni”) che impongono a sé stessi una sfida, chi per necessità, chi per vezzo. Sia Crusoe che Fogg, nelle loro peripezie, stabiliscono una precisa distanza con il mondo: l’individuo da una parte e, dalla parte opposta, il resto della collettività. Ma nel caso di Cosimo c’e qualcosa di più: gli altri due “colleghi” conducono la sfida con i piedi ben radicati sul terreno, mentre il barone carica di un significato ancor più potente la sua postura: rimane, infatti, in aria, bandendo il contatto fisico con il suolo e sublimando tale gesto in una dimensione prometeica.
La presenza costante dell’elce è anche strumento per conferire alla narrazione un afflato lirico, pronunciato ma sempre controllato, che si manifesta nella celebrazione del paesaggio. La storia si svolge in un paese immaginario, Ombrosa, in un punto imprecisato della riviera ligure. Tuttavia, attraverso la rielaborazione di schegge di memoria, sulla pagina viene ad imprimersi una nostalgica evocazione di un paesaggio naturale che presto si tramuta in un paesaggio dell’anima, in cui confluiscono note nostalgiche e dolenti. Questa impostazione narrativa vale infatti a denunciare il degrado urbano (il fatto che il racconto si svolga nel Settecento non inibisce l’autore dall’esporre i mali della modernità) che stava affliggendo la riviera ligure la quale – invasa dalla marea montante di caseggiati urbani – si era trasformata in una distesa di cemento.
La radice lirica del libro, dunque, trae linfa dalle radici dell’elce che – in virtù della presenza, sui suoi rami, del barone Cosimo – si erge simbolicamente a difesa della libertà di pensiero e di azione, nel segno di un sano ed edificante primitivismo. Recidendo, in costruttiva polemica, i legami con il mondo materiale, tale primitivismo, echeggiante Rousseau, trova la sua voce più autentica e il suo canto più intonato.