Solo un’illusione. Guglielmo, trentotto anni, pensava che impegnandosi assiduamente in un lavoro, facendosi da esso assorbire, sarebbe riuscito, almeno in parte, a superare il trauma legato alla figura della moglie, Rosa, prematuramente scomparsa. In giornate che per mesi si susseguono tutte uguali, come una triste litania, il protagonista de “Il taglio del bosco” di Carlo Cassola si configura come un automa che spezza ceppi, li frantuma, li raccoglie in ceste e in sacchi. Un lavoro logorante, ma anche gratificante, perché quel solitario posto della Maremma grossetana – nello scrittore area geografica e area poetica si fondono in felice sintesi – ha bisogno di una “ripulita”. La gente del luogo sarà grata a lui e ai suoi “compagni di cordata”, una volta terminata quella nobile missione.
Un suo amico, da principio, consapevole del dolore che affliggeva Guglielmo, gli aveva proposto tale lavoro con la speranza che anche il contatto con la natura, una natura a trattati selvaggia, a tratti lussureggiante, avrebbe potuto inoculare in lui un senso di dolce abbandono, una sorta di “anestesia della sofferenza”: un sentimento panico che si sarebbe dovuto tradurre in un benefico antidoto. Solo un’illusione, anche crudele, perché all’inizio della missione Guglielmo si era sentito meglio, leggermente meglio: insomma, quanto bastava per riprendere a vivere la semplice quotidianità con un animo sufficientemente sereno e con una disposizione più conciliante verso il mondo esterno. Ma il dolore si era assopito solo in superficie: in profondità, agiva implacabile.
Ogni sera, al termine di una giornata intensa, spesso stressante, Guglielmo e gli altri operai solevano radunarsi intorno al fuoco, non solo per mangiare, ma anche per fare “chiacchiere scanzonate”. Anche questo rito si rivela un’illusione perché le parole, in realtà striminzite e frammentate, che si scambiano tra loro non valgono a segare – proprio mentre tagliano il bosco – le sbarre di quella “cella di solitudine” in cui ciascuno è rinchiuso e dalla quale non è dato evadere. Guglielmo vorrebbe esternare ai compagni il suo dolore. Potrebbe essere un modo, pensa tra sé, per alleggerire il peso che, inclemente, gravava su di lui. Ma non ci riesce. E di quel dolore non ne parla se non con sé stesso.
In una prosa estremamente scarna Cassola finisce per creare una situazione, per quanto dai tratti concreti e terragni, fuori del tempo e dello spazio. Una situazione che evoca un’atmosfera sospesa, attonita. Il suo stile è refrattario a ogni tentazione di compiacimento letterario intriso di retorica. A Cassola preme di vergare una pagina che sia una registrazione puntuale ed esaustiva della condizione dell’uomo incarnata, in questo caso, da Guglielmo e dal suo tormento interiore.
Il protagonista spera che il sonno, nell’elaborazione del lutto, gli portasse giovamento. Scrive Cassola: “Precipitare nel buio del sonno era quanto di meglio gli restava. Quando Guglielmo sentiva il sonno venire, era contento, perché per qualche ora sarebbe stato liberato da ogni pensiero, e perché un altro giorno era passato. Anche il giorno della disgrazia si allontanava, sia pure lentamente. Guglielmo non sperava che il tempo avrebbe colmato il vuoto che si era aperto nella sua vita. Tuttavia era una bella cosa che il tempo passasse”.
Finito il lavoro, sul limitare della primavera, i boscaioli sono lieti di aver fatto il proprio dovere e, soprattutto, sono ben contenti di tornare dalle rispettive famiglie: ciascuno troverà sulla soglia di casa la moglie pronta ad abbracciarlo dopo mesi di assenza. A Guglielmo non toccherà la stessa sorte. E’ vero, ha due bambine da accudire (con l’aiuto della zia), ma il vuoto lasciato da Rosa non è colmabile. “Era venuta la primavera – si legge in un passo del romanzo – e per Guglielmo questo significava molto, perché con la primavera si concludeva il periodo più duro del lavoro, ed egli poteva fare frequenti scappate a casa, a godersi un po’ la famiglia. Ma subito la coscienza che quest’anno sarebbe stato tutto diverso gli diede una fitta dolorosa”. Era cominciato, dunque, il risveglio della natura, ma per Rosa “non ci sarebbe stato risveglio”. Che gioissero l’ape, il fiore, il bosco, gli altri uomini, la natura: a lui “era vietato prender parte a questa gioia”.
Prima di tornare a casa, Guglielmo fa una breve sosta, e si mette a fissare la volta celeste. E riflette. “Pensava che Rosa avrebbe dovuto aiutarlo. Non era possibile continuare così”. Lassù, dal cielo, ella doveva dargli la forza di vivere. Continuava a guardare in alto. “Ma era tutto buio, non c’era una stella”.