L’apparenza inganna. E’ ricordato come un “grande minore” Guido Gozzano. A corroborare questa valutazione concorreva anche il suo aspetto, di una discrezione, intrisa di composta signorilità, che lo faceva sembrare dimesso. Mira a sfatare questa apparenza Gianfranco Lauretano nel libro “Guido Gozzano. Il crepuscolo dell’incanto”, sottolineando, anzitutto, che la sua poesia è stata profetica nel mettere a fuoco le fratture del Novecento. Personaggi come la signorina Felicita o Totò Merumeni sono diventati “emblema di una sensibilità decadente tra inettitudine e parodia, “istanze di assoluto e impossibilità di rispondervi”.
L’autore evidenzia poi che Gozzano ha fissato in testi “memorabili” una corolla di sentimenti e pensieri “tipici e nuovi”, così come orizzonti e paesaggi caratteristici e riconoscibili. Nello stesso ha attraversato la visione del mondo della sua epoca, “soffrendola nella carne per elevarla a idea perpetua”. Quando un poeta riesce a toccare questi livelli, “cessa di parlare di sé stesso e dice di tutti”.
Lauretano nella sua puntuale analisi dell’opera di Gozzano (“I colloqui” è la raccolta di poesia più nota) si richiama alle profonde intuizioni del critico letterario Renato Serra, estimatore del poeta. Serra aveva capito “il gioco” di Gozzano, ovvero quella raffinata finzione letteraria che mette tutti i suoi personaggi, gli ambienti e le situazioni evocate, sul confine sottile tra “la verità umana” e “l’effimero artistico”, dettato da una verosimiglianza che è prodotto di “un artista ben conscio”. Scriveva Serra: “Invece è un artista, uno di quelli per cui le parole esistono, prima di ogni altra cosa. Egli è l’uomo che assapora il piacere di un vocabolo staccato, il valore di un nome proprio, quasi come un amico di Flaubert. E adopera le parole come una pasta piena e fluente, che riempie tutto lo stampo del verso”.
In una delle pagine più belle del libro, Lauretano scrive che è “inutile rettificare un’illusione che il tempo già comincia a correggere naturalmente”. Quel che “i più di noi” presero per carattere e qualità essenziale della poesia di Gozzano era soltanto un gioco creato da lui nella nostra ingenuità. “Quanti discorsi – ricorda – facemmo sul mondo poetico di Guido, piccolo mondo, mondo in grigio, di provincia non molto lontana e di passato non ancora antico, con le buone cose di pessimo gusto, i dagherrotipi, le cose di soffitta e gli odori modesti”. Il tutto nel segno della prosaicità e dello “scoloramento volontario”, e dell’aspirazione ad un realismo umile.
Lauretano felicemente definisce “in sordina” la poesia di Gozzano, una poesia attraversata da una povertà ostentata e guidata da una “rinuncia alla letteratura”. I suoi versi coniugano la dimensione nostalgica e la dimensione languida. “Come un pittore può ottenere un colorito ricchissimo anche solo con un po’ di bistro e di terra scura – rileva l’autore -, così Gozzano riesce ad essere un nuovo e saporito verseggiatore con delle parole comuni, degli accenti cascanti e delle rime approssimative”. Gozzano ha la civetteria degli accordi che sembrano falsi, delle bravure che paiono goffaggini di novizio. Invece è un artista.
In Gozzano si ravvisa un gusto di sensazioni fresche, “come la prugna al gelo mattutino”, e anche si riscontra un realismo leggero di novellatore, che desta forte interesse in quelle storie “così precise nell’ambigua trascuratezza del fare”. Sono gli idilli di nonna Speranza e della signorina Felicita, il dialogo d’amore tra le crisalidi delle farfalle, la strada montanina in mezzo alle ginestre: “cose un po’ manierate, un po’ prolisse, ma inventate, limpide e belle”, afferma l’autore.
Non esiste antologia, saggio, intervento critico su Gozzano che non lo definisca “crepuscolare”, secondo la celebre definizione del critico letterario Antonio Giuseppe Borgese. E quel termine veniva usato in un’accezione non certo lusinghiera. Borgese parlava infatti di una “volontaria e studiata sciatteria” per poi dichiarare: “Contro la retorica dell’enfasi vien fuori la retorica dell’ingenuità e della semplicità. E poiché non han nulla da cantare, ma sentono un veritiero bisogno di cantare, s’attaccano alle quisquilie, ai fiori di carta e alle cose buffe. Si sono messi a idealizzare anche la tubercolosi”.
In merito a questa valutazione avanza delle riserve la docente Giusi Baldissone che rivendica la statura del verseggiare di Gozzano. Così scrive: “La scrittura gozzaniana è così ricca, tecnicamente e culturalmente, di novità che se, nel momento in cui si pone, è difficile trovarle una patria poetica, è necessario, tuttavia, rifiutare una volta per tutte quella poetica del ‘sommesso’ e del ‘ malinconico’, che riduce Gozzano ad un molle cantore inconsistente”. Distinzione, scrive Lauretano, “che ci sentiamo di condividere, nonostante l’ipertrofia di virgole e virgolette”.
Spicca, tra i giudizi formulati sulla figura di Gozzano, quello dello scrittore, sempre tagliente e caustico, Federigo Tozzi. Secondo lui, Gozzano “passerà di moda come tutte le altre cose che in sé non hanno una virtù di sopravvivenza”. Nello scialbo “confusionismo” italiano, prodottosi con il “giusto distacco” dal pensiero carducciano e dall’”eterna insincerità” dannunziana, era naturale che un “minuscolo” Gozzano fosse salutato come rinnovatore e precursore. Un “tappo di sughero” che galleggia alle vele dell’orizzonte. Un commento “davvero terribile”, chiosa Lauretano.