Nell’universo letterario i fiori hanno svolto un ruolo rilevante, talora strategico, in funzione di un’ottimale fruizione delle opere. Tale seducente dimensione narrativa è indagata – con rigore critico e agilità espressiva – da Rosa Elisa Giangoia nel libro “Fiori di parole. I fiori nella letteratura”, in cui l’autrice (insegnante, scrittrice e critico letterario) richiama l’attenzione sull’”inscindibile nesso” tra i due elementi, un vincolo “antico” e “cangiante”.
L’ideale della “docta varietas”, canone della produzione poetica di Agnolo Poliziano, esercita un significativo influsso anche riguardo alla presenza dei fiori. Nella sua opera tutti i fiori che vengono nominati hanno una precisa giustificazione letteraria. I riferimenti ad erbe, fiori e fioretti – rileva la Giangoia – denunciano sempre scoperte ascendenze letterarie. Esempio tipico può essere considerato l’”incipit” delle “Stanze”: “Giovane donna sembra veramente quasi sotto un bel mare acuto scoglio, o ver tra’ fiori un giovincel serpente uscito pur mo’ fiori vecchio scoglio”. Qui l’”incipit” petrarchesco “Giovane donna sotto verde lauro” sin intreccia con l’evidente memoria dantesca del verso “tra’ fiori un giovincel serpente” che riprende dalla “Divina Commedia” il verso “tra l’erba e i fior venia la mala striscia”, già utilizzato da Petrarca in “il serpente tra’fiori e l’erba giace”.
Per trovare il girasole in poesia si deve arrivare a Gabriele D’Annunzio. Vi si accenna nella prima edizione del poemetto “Venere d’acqua dolce”, ma sarà Giovanni Pascoli a dare ad esso un vero rilievo poetico in “Placido di Myricae” e nel componimento “Il saluto” contenuto nei “Nuovi Poemetti”. Con Eugenio Montale poi i girasoli assurgeranno anche ad una precisa dimensione simbolica.
Nell’interessante itinerario tracciato dall’autrice non poteva mancare Giacomo Leopardi: la differenza tra i due tempi della sua poesia, quello idillico e quello eroico, si misura anche nel riferimento ai fiori. Infatti nel “Sabato del villaggio” campeggia il “mazzolin di rose e viole”, mentre nell’ambito delle liriche ascrivibili alla poetica eroica s’impone “La ginestra”. Questo fiore, fino a quel momento assente nella tradizione letteraria, diventa espressione di un rinnovato rapporto fra il poeta e la natura in ambito romantico, configurandosi come un simbolo del pensiero esistenziale e sociale di Leopardi. Dal canto suo, il “mazzolin di rose e viole” indica un modo popolare di confezionare i fiori, appunto in mazzi, che progressivamente si impone nei tempi moderni, ma sta soprattutto a significare l’allegria della festa.
Con una punta di pedanteria, Pascoli rilevò l’inesattezza botanica da parte del Recanatese, poiché la natura non fa sbocciare contemporaneamente questi due fiori. Tuttavia va rilevato – osserva l’autrice – che il connubio di rose e di viole ha una lunga tradizione nella poesia classica e in quella italiana, che ha foggiato un abito poetico ben documentato nella produzione in latino e in volgare. Quel “mazzolin”, scrive la Giangoia, è “indubbiamente un’immagine di primavera eterna intertestuale e metatestuale, il quale giustappone, con una punta di ironia, un topos della tradizione alta con una situazione popolare in tono medio e pacato”.