E’ rimasto incompiuto “Il castello” (composto nel 1922 e pubblicato postumo nel 1926) di Franz Kafka. Eppure il messaggio che lo scrittore boemo intendeva comunicare non è monco o parziale. Tutt’altro: è potente, stentoreo, e squarcia ogni velatura diplomatica. Nel romanzo infatti è tessuta e sviluppata la categorica denuncia contro un sistema sociale reo di emarginare l’individuo mortificandone aspirazioni e potenzialità. Il paradosso, cinico e perverso, è che proprio quando sembra che tale sistema favorisce l’integrazione del “comune cittadino”, in realtà lo respinge, in conformità ad oscuri e intricati meccanismi burocratici. Il risultato finale è oltremodo scoraggiante perché al soggetto, vittima di tale sopruso, non è dato nemmeno sapere chi è veramente il “nemico”, che viene a configurarsi come una realtà indistinta, astratta, evasiva. Di conseguenza viene frustrato qualsivoglia tentativo di approntare una forma di difesa. L’individuo, anche ammesso che cerchi il riscatto, non saprebbe contro chi lanciare il suo attacco.
Protagonista del romanzo è l’agrimensore K. che, al termine di un estenuante viaggio, giunge nel villaggio ai piedi del castello del conte Westwest, dove è accolto con un’ispida ostilità. L’agrimensore era stato convocato al castello probabilmente per un non meglio precisato errore burocratico, visto che i confini nell’area sono segnati in maniera inequivocabile: insomma, non c’era proprio bisogno di un agrimensore. Questi, tuttavia, invece di prendere senza indugio la via del ritorno, decide, ostinato, di andare fino in fondo alla faccenda cercando di sciogliere il mistero della convocazione. In questo sforzo vibra anche la sua volontà di legittimare, al cospetto di una comunità introversa e assorbita in sé stessa, la sua identità di straniero.
La trama – trapunta di rimandi ad elementi biografici, religiosi e filosofici – si dipana su un crinale in equilibrio tra onirico e surreale, che crea un’atmosfera fiabesca. Ma non c’è nulla di idilliaco in questa dimensione. E merito peculiare di Kafka è quello di aver saputo scrivere un romanzo che, pur mutuando movenze e lemmi dal versante onirico e surreale, si qualifica come estremamente realistico. In questo senso, la denuncia in esso contenuta risulta essere ancora più incisiva e inquietante.
Nel tentativo, votato al fallimento, dell’agrimensore di capire perché è stato convocato al castello si specchia, su più vasta scala, lo scacco che presiede – secondo la concezione kafkiana – ogni sforzo dell’uomo di dare una risposta plausibile ai tanti interrogativi inevasi che assediano le dinamiche dell’esistenza. La polidimensionalità del romanzo ha innescato molteplici nonché divergenti interpretazioni: lo si è letto, infatti, in chiave teologica, psicologica, sociologica. Si è anche cercato di determinare con rassicurante esattezza il significato rivestito dal castello, che avrebbe una valenza trascendente rispetto alla comunità “umana” del villaggio, inteso come sede del male. In una prospettiva manichea, e quindi con carattere di opposizione, il castello assurgerebbe a sede della grazia e della potestà divina. Al contempo il castello è stato concepito anche come un labirinto al quale l’agrimensore non arriverà mai: al massimo, gli sarà concesso di girarci intorno. E non a caso Kafka ha scelto, per conferire maggiore pregnanza alla sua denuncia, un agrimensore, ovvero un soggetto che fa della capacità di misurare le cose la sua ragion d’essere. Ma la realtà, sempre così sfuggevole e fluida, non ammette sapienti calcoli di precisione., Allora le competenze specifiche dell’agrimensore sono destinate, in modo inclemente, a rimanere frustrate. E ad essere derise.
La figura dell’agrimensore è stata paragonata a quella di Ulisse: entrambi, infatti, lottano contro gli dei che sembrano frapporsi alla loro ansia di conoscenza. Ma mentre all’eroe omerico è dato di riconoscere nell’aperta avversione di forze superiori un’ulteriore e più stimolante motivazione a vincere la sfida, all’eroe kafkiano non arride questa prospettiva. Gli dei, personificati dall’imperscrutabile castello, sono indifferenti, prima ancora che ostili. Così la lotta impari ingaggiata dall’agrimensore (sembra che se il romanzo fosse stato finito, Kafka gli avrebbe fatto guadagnare l’accesso al castello quando ormai era agonizzante) acquista una valenza ancor più drammatica. E dal tratto beffardo.