C’è paesaggio e paesaggio. Dalla quello di Omero a quello di Leopardi, passando per Orazio. Esso sottende la dimensione eroica, idillica, elegiaca. Di fronte a questo scenario, ciò che sorprende nel termine convenzionale di paesaggio è la “non-ovvietà” del fenomeno che racchiude. Il paesaggio, infatti, non è un fenomeno oggettivo, misurabile ed esistente per sé, ma qualcosa che nasce in virtù dell’azione dell’uomo e che da questi dipende. In forza di tale valutazione, afferma Michael Jakob cattedratico di lettere comparate all’università di Grenoble, in “Paesaggio e Letteratura” – scritto nel 2005 e ora riproposto dalla casa editrice Leo. S. Olschki (Firenze, 2024, pagine 241, euro 29) – il paesaggio in quanto realtà è il prodotto di una costituzione da parte del soggetto, ossia di “un processo storico di costituzione”. Benché legato in molteplici modi con la natura, il paesaggio è dunque per sua stessa essenza “artificiale” e “innaturale”.
Sebbene il paesaggio venga analizzato sul piano filosofico già prima del 1800, una sua vera e propria teoria si affermerà solo nel ventesimo secolo. Nei Paesi di lingua tedesca una linea di tradizione interpretativa conduce, prendendo le mosse dalle estetiche delle filosofie trascendentali e idealistiche, al celebra saggio di Joachim Ritter “Paesaggio. Sulla funzione dell’elemento estetico nella società moderna”. Secondo l’autore, il cosmo degli antichi, decaduto a natura fisica e infine disgregatosi sotto l’assalto congiunto delle scienze naturali e della tecnica, trova salvezza nel fatto che la natura viene contemplata e goduta come paesaggio. Esso, allora, svolge la funzione di “surrogato estetico” di un ordine sostanziale che, soprattutto alla luce dello sviluppo delle scienze naturali, è irrevocabilmente scomparso.
Ma che cos’è, nello specifico, il paesaggio letterario? Anche in questo caso, è difficile trovare una definizione univoca ed esaustiva. Certo è che abbondano, nelle opere che hanno fatto la storia della letteratura, le descrizioni in cui lo scrittore si cimenta nel tentativo di trasmettere al lettore il senso e il valore di un paesaggio, diurno e notturno, spesso funzionale all’economia del testo.
La concezione della natura, nella cultura greca, in rapporto con l’uomo ed orientata sui suoi bisogni, è già in Omero. Nell’”Iliade”, in effetti, la natura si ritrova soltanto nella forma dell’abbreviazione. Le scarse descrizioni naturalistiche tendono ad essere stereotipate. Nell’epica omerica l’azione ha la priorità e ad essa tutto è subordinato: vi sono solo quindi descrizioni puntuali di scene naturali, come la pianura di Troia e il mare in tempesta. Nell’”Odissea” la natura, in virtù del tema del viaggio, acquista uno spazio maggiore: le particolareggiate descrizioni possiedono un vero e proprio carattere digressivo e tendono a diventare autonome.
Con “Julie ou la Nouvelle Héloise” di Rousseau, la natura acquista una posizione chiave. La descrizione dell’Alto Vallese e le impressioni di Meillerie e di Clarens sono tutt’altro che occasionali episodi all’interno del vasto romanzo epistolare. Esse fungono piuttosto da cardini del testo, da centri discorsivi che fanno emergere i conflitti interni all’azione del romanzo, rivelandosi come “finestre” che lasciano libera la vita su una nuova sensibilità per la natura. Sebbene – rileva Jakob – la scoperta da parte di Saint-Preux, l’eroe del romanzo, di una natura insediata tra il bello e il sublime ricorra, a schemi interpretativi ormai consolidatisi e sebbene in tal modo l’opera di Rousseau esprima soltanto sommariamente le tendenze del proprio tempo, la conversione letteraria di questi schemi rappresenta “una novità assoluta”. Come tale venne recepita la “Nouvelle Héloise” proprio per le sue descrizioni naturali: i viaggiatori, con una copia del romanzo sotto braccio, seguivano le tracce di Saint-Preux nella natura svizzera, e il libro generò una forma di turismo letterario sino ad allora sconosciuto per la sua intensità. Ciò che Coleridge avrebbe osservato nel 1800 in relazione al Lake District – “Le signore, mentre passano davanti ai luoghi, leggono Gilpin’s &c invece di guardarli” -, cioè l’accesso indiretto alla natura attraverso la letteratura sino all’eventuale mancato incontro con essa, caratterizza già la ricezione di quest’opera che più di ogni altro scritto di Rousseau indusse i contemporanei a cercare la strada di un “ritorno alla natura”.Un ruolo significativo è poi svolto, nel corso dei secoli, dal sentimento panico, per esprimere il quale Goethe, nel “Werther”, così scrive: “Quando la bela valle effonde intorno a me i suoi vapori e il sole alto investe l’impenetrabile tenebra di questo bosco e solo qua e là qualche raggio riesce a penetrare in questo sacrario, e io mi stendo nell’erba alta accanto al torrente, e, così vicino alla terra, scopro le piante più diverse e più singolari, ed io provo allora l’angoscia di un desiderio”. Il rapporto, intimo e sofferto, tra l’uomo e la natura, nel segno di un acceso panteismo, trova in queste affermazioni una chiara esemplificazione.
Alla luce di un’analisi solida e acuta delle diverse dinamiche caratterizzanti il legame tra il paesaggio e la letteratura, Jakob evidenzia una “circostanza paradossale”: una fra le più significative poesie paesaggistiche porta, come estremo esito, all’esclusione del paesaggio stesso. Dal punto di vista di Schiller, ne “La passeggiata” la riduzione dell’elemento paesaggistico (ovvero il paesaggio viene gradualmente smontato) è legittima: solo con il recupero dei presupposti del moderno rapporto con la natura, vale a dire per mezzo della ricostruzione storica nel corso della quale il viandante realizza la necessità della separazione tra io e natura quale condizione del progresso, egli scopre la prospettiva dalla quale andrà definita la sua relazione con la natura. In sostanza, “La passeggiata” ritorna all’ora zero, in cui l’io si è staccato dalla natura, rifiutando “una precipitosa estetizzazione della natura perduta”.
