Vale il necrologio di Gabriele D’Annunzio (i due, per la cronaca, avevano avuto qualche screzio) a riscattare la figura di Giovanni Pascoli, a lungo relegato ai margini della letteratura italiana d’eccellenza. Appresa la notizia della morte (il 6 aprile 1912, sabato santo), il vate inviò al “Giornale d’Italia” questo conciso ed eloquente ricordo: “Giovanni Pascoli è il più grande e originale poeta apparso in Italia dopo il Petrarca. Questo sarà riconosciuto quando l’Italia rinnoverà anche le vecchie tavole dei valori poetici“. Il necrologio ben si conforma all’obiettivo perseguito da Bruno Nacci che nel libro “Giovanni Pascoli. Dal nido al cosmo” mira a richiamare il valore, non sempre adeguatamente apprezzato, di un uomo che spiccava per rigore morale e per passione civile, e che vantava una vastissima cultura. Nel tratteggiare, con sicura competenza, la parabola esistenziale e artistica di Pascoli, l’autore evidenzia anche la sua fama di poeta latino.
La sua fortuna critica fu altalenante. All’elogio di D’Annunzio fa da contraltare il giudizio, non proprio conciliante, di Benedetto Croce, il quale, a proposito di “Myricae”, scriveva: “Che cosa sono quelle poesie? Sono pensieri sparsi, schizzi, bozzettini, un albo di pittore che può essere di molto pregio, ma che rappresenta piuttosto che l’opera d’arte, gli elementi di essa”. Croce poi rincara la dose in merito alla poesia “Valentino”: “Il delicato poeta si è messo a rifare il verso ai polli”, ghignava il filosofo. In tempi più recenti, Luciano Anceschi ha affermato che Pascoli “trova il suo lirismo e la musica della sua poesia cercando le cose e le loro sfumature, non facendo della musica la sua meta immediata ed essenziale”. Se il critico letterario avverte la distanza del poeta dal simbolismo e dal decadentismo europeo, gli rimprovera però “una esagerata ricchezza di vocaboli”, quasi un’enfasi di professore.
Scrive Nacci: “Come non capire che Pascoli è tutto, non nelle cose, ma nella musicalità che coglie nelle cose facendole risuonare e che esprime inseguendo le armonie e le vibrazioni di questa musicalità? La cecità della critica nostrana sembra a tratti essersi fatta caricatura storica, relegando Pascoli nel più facile e vaporoso ghirigoro dell’epoca, lo stile Liberty”. Mentre il critico Renato Barilli è arrivato a sostenere che “spegnere una anche se modesta fiammella di vita è la massima colpa nell’universo pascoliano”, il collega Walter Binni, controcorrente, ha finemente osservato che “ciò che resiste, alla fine del percorso nella selva della critica pascoliana, è l’immagine di un poeta che, mentre si offre con umile chiarezza alla definizione dei critici, si sottrae di colpo con proterva complessità”.
Una complessità, rileva Nacci, che a molti parve “inutile fastello linguistico”, ad altri un segno di cattivo gusto. Insomma, il poeta di San Mauro, da una parte, sembra appiattito sulla realtà (minuta, agreste, familiare) a cui rifarebbe il verso con consumata bravura; dall’altra, questa stessa bravura gli viene rinfacciata come “un gioco di prestigio”, nonché come un’abilità “meccanica e stucchevole”.
Pascoli, molto più del ricorrente sperimentalismo italiano, dal Futurismo al Gruppo ’63, colse la crisi che accompagnava il passaggio della lingua italiana, elitaria e classicheggiante nei suoi modelli, a una vulgata che – con il diffondersi dell’alfabetizzazione e l’unità politica e culturale della nazione – non distingueva più il parlato dallo scritto, mescolando generi e inflessioni. Lo sperimentalismo europeo, che nasce con il Futurismo italiano, è debitore di Pascoli a partire dalla metrica, dove egli è “un rivoluzionario nella tradizione”. Ciò che affascina nei suoi versi, anche quelli meno riusciti, è “lo sforzo costante di spingersi oltre, di sfondare i limiti”. Osserva, in merito, il filologo Gianfranco Contini: “Pascoli ha cercato di sopprimere una frontiera, che, se non era proprio quella di musica e poesia, era la frontiera sua parente fra la grammaticalità della lingua e l’evocatività della lingua. Questa frontiera Pascoli l’ha infranta, come ha annullato, e questo è forse un risultato ancor più importante, il confine fra melodicità e icasticità, cioè tra fluido corrente, continuità del discorso, e immagini isolate autosufficienti. In una parola, – sottolinea Contini – egli ha rotto la frontiera fra determinato e indeterminato”.
Molto interessante è il capitolo dedicato a Pascoli poeta latino. Anche in questo caso l’autore è mosso dal sano desiderio di riscattarne il valore. “Come è possibile – si chiede – dimenticare la produzione latina di Pascoli? O relegarla ai margini della sua opera in lingua italiana come se fosse una specie di passatempo erudito, una curiosità su cui lasciare che si accumuli la polvere del tempo?”. Il corpo delle sue poesie latine non solo è “straordinariamente compatto”, ma è di una varietà di temi, personaggi, situazioni, che svela un mondo “tutt’altro che secondario”. E soprattutto rivela “un’altissima sensibilità espressiva che, calata nei metri e nelle strutture lessicali, grammaticali e metriche della latinità classica, sprigiona un fascino raro”.
La seconda parte del libro presenta un’antologia di liriche, interpretate con misura ed eleganza, che contribuisce a far conoscere il laboratorio dello stile e del pensiero pascoliani. All’autore bastano alcune fulminee annotazioni per tessere l’esegesi dei versi. Nel “Piccolo Vangelo” (una sezione delle “Poesie varie”) Pascoli illustra parabole e momenti della vita di Gesù con la candida volontà, rileva Nacci, di tradurre la speranza in “un atomo di luce”, controcanto a quell’”atomo opaco del male” su cui il cosmo piange in “X Agosto”. Pascoli religioso? si chiede l’autore. Certamente, osserva, se per religione s’intende “una visione della realtà mai esaurita nella povera somma dei pensieri e degli atti che pretendono di comporla e fondarla”, e se per religione s’intende “una vocazione all’ascolto, un umile tremore”.