E’ tra i sedici poeti della prima guerra mondiale commemorati su un monumento di ardesia posto, in data 11 novembre 1985, nell’”Angolo dei Poeti” nell’Abbazia di Westminster. Il britannico Rupert Brooke è noto anzitutto per i “sonetti di guerra” composti durante il conflitto, che contribuirono ad ispirare e ad alimentare, tra il fragore delle armi, un fervido sentimento patriottico. E Brooke, lungo questo solco, finì per diventare il simbolo del giovane guerriero, bello e coraggioso, caduto in battaglia. Al poeta Paola Tonussi dedica una dettagliata biografia dal titolo “Rupert Brooke. Lo splendore delle ombre”. Brooke, il sognatore che componeva versi in giardino, a piedi nudi sull’erba, cantò la bellezza nella sempre vigile consapevolezza della sua precarietà. Una consapevolezza che non poteva non essere rafforzata dall’imperversare della guerra che con inesorabile gradualità veniva tranciando vite e aspirazioni.
Ancora studente, cominciò a frequentare i circoli letterari e fece amicizia con Winston Churchill, Henry James, E.M. Forster, come pure con molti membri del celebre gruppo di Bloomsbury, tra cui Virginia Woolf. Tuttavia non si legò mai a questo gruppo, mentre aderì al cosiddetto movimento dei “poeti georgiani”, caratterizzato dalla tendenza a coltivare il sentimentalismo e l’edonismo.
Il “sonetto di guerra” più noto s’intitola “The Soldier”. Fu composto nel 1914 e pubblicato postumo l’anno successivo. “Se dovessi morire – recita un passo – pensa solo questo di me- Che c’è un angolo di una terra straniera che sarà sempre l’Inghilterra. Ci sarà in quella ricca terra straniera una polvere nascosta ancor più ricca. Una polvere che l’Inghilterra generò, che ha plasmato e reso consapevole”. Un componimento, questo, che si configura come una sorta di testamento spirituale grondante orgoglio patriottico e sentimento nazionale.
Nel febbraio 1915, Brooke faceva parte della Forza di spedizione britannica nel Mediterraneo, alla volta di Gallipoli, quando sviluppò la setticemia per una puntura di zanzara infetta. Le sue condizioni peggiorarono rapidamente: morì il 23 aprile, all’età di 27 anni, nell’isola di Sciro, in Grecia.
E’ la sua morte a rivelare con pieno rigoglio la stima e la considerazione che – grazie alla sua raffinata sensibilità e profonda cultura – si era guadagnato in vita. Il 26 aprile, sul “Times” uscì un necrologio firmato dalle iniziali “W.S.C” (ovvero Winston Churchill, all’epoca Primo Lord dell’Ammiragliato). In esso si legge: “Rupert Brooke è morto. Abbiamo sentito una voce, la più alta a rendere giustizia alla nobiltà della nostra gioventù in armi. Quella voce è stata messo presto a tacere. Ne rimangono solo gli echi e i ricordi, ma questi dureranno”.
Morendo, scrive Paolo Tonussi, Brooke “intaglia il proprio nome a lettere indelebili nella memoria di una nazione, i riverberi dilatati a toccare le generazioni future, la sua poesia amata come poche nei decenni successivi”. Il mito, però, rileva la studiosa, “dimentica” il ragazzo di Cambridge, lo studioso di Webster e Marlowe, il ragazzo “innamorato della poesia, a cui la natura aveva dato bellezza, fascino e intelligenza”. Quintessenza dell’epoca edoardiana, quel ragazzo aveva inaugurato “una nuova informalità”, maniere di stile e di vita più moderni, e nei versi aveva immesso “il piglio metafisico” del suo intelletto, “mitigato da grazie e leggerezza di tocco”.
Con occhi addestrati alle visioni – Donne, Marvell, Webster, Milton, la vita di Brooke – sottolinea la studiosa – ha voluto trovare rifugio nelle parole “senza conoscere parole che potessero darglielo pienamente”. La sua poesia intaglia immagini di albe e tramonti “con lingua evocativa e forme perfette”: la bellezza dei piccoli piedi sempre in fuga, l’attimo sottratto all’eterno, la visione platonica di un mondo di archetipi e l’amore per un’Inghilterra mitica, “già scomparsa mentre la celebra”.
