C’è voluto un avvenimento sconvolgente per innescare, finalmente, un processo di introspezione destinato a rivelare, senza distorsioni e infingimenti, la vera identità di Alain Poitaud, il protagonista dello splendido romanzo che Georges Simenon scrisse nel 1967: fu pubblicato l’anno successivo e ora Adelphi lo ripropone (Milano, 2024, pagine 170, euro 18). La moglie, Jacqueline, uccide, con un colpo di pistola, la sorella, Adrienne. Reo confessa, viene condotta al Quai des Orfèvres, per essere interrogata. Seguirà, come da protocollo, il processo. Ma il vero interrogatorio è quello a cui Poitaud, direttore di una rivista, sottopone sé stesso, da quel momento in poi. Donnaiolo impenitente e incallito bevitore, in passato ha avuto una relazione anche con la sorella di Jacqueline. Dopo l’omicidio, marito e moglie – è lei a volerlo – non si parleranno più. Nel frattempo si scoprirà che non è solo Poitaud ad aver intrecciato una relazione con le due sorelle. C’è anche un altro uomo, ed è stato lui, insospettabile, ad aver scatenato la letale reazione di gelosia.
Con una prosa asciutta, a tratti cinica nella sua essenzialità, Simenon mette a nudo il carattere del protagonista. Impietosamente, lo colloca in un’atmosfera lugubre, prima minata e poi lacerata dal tarlo della solitudine. Poitaud confessa più volte di avere paura di rimanere solo, di essere solo. Per questo motivo si circonda, in modo ossessivo, di persone con le quali, in realtà, non riesce mai a stabilire un contatto caloroso, tanto meno un legame solido. La moglie l’ha soprannominata “Micetta” per poi ammettere, nel dipanarsi della vicenda, che questo nomignolo, dolce, per non dire sdolcinato, lo avrebbe potuto affibbiare a qualunque altra donna con cui aveva avuto una relazione. E “Micetta”, per tutto il tempo che sono stati sposati, ha rappresentato per lui solo una “presenza”. Non di più. Quando stavano a tavola con gli amici, il suo gomito doveva toccare quello di lei: così non si sentiva solo. L’avrebbe pagata cara questa superficialità capricciosa e dimessa.
Ma, in fondo, non è cattivo Poitaud. Una coscienza sensibile ce l’ha, come dimostra la riflessione riguardo al padre, che ha dedicato la sua vita, con zelo straordinario, alla professione di dentista, la quale gli ha procurato agio, ma non certo la grande ricchezza derivata a Poitaud dall’essere diventato direttore di una rivista rivelatasi “una minera d’oro”. Una riflessione che lo imbarazza, e che lo fa sentire in qualche modo in colpa.
Dopo l’assassinio, il protagonista, per quanto immune da ogni addebito, comincia a sentire il mondo come estraneo. In esso non si riconosce più. Ma poi viene assalito da un dubbio: non è che il mondo che si sta allontanando da lui? A quel punto sente vibrare dentro di sé – lui che si ritiene un “duro” e che detesta i “sentimentalismi” – l’urgenza di un po’ di “tenerezza” nei suoi rapporti con il prossimo. Viene così a svilupparsi un logorante dissidio interiore che lo porterà ad una decisione estrema, una volta constatata l’impossibilità di ricomporre tale dissidio. Non è cattivo Poitaud. Appresa l’identità dell’uomo che ha “armato” la mano di sua moglie, lo va a trovare. Non gli farà del male, non tramerà rappresaglie: lo fisserà solo negli occhi e poi se ne andrà via. E prima di realizzare la decisione estrema, impone a sé stesso, come un atto di riscatto personale, di non “approfittare” della procace donna che fa le pulizie nella sua casa. Per la prima volta, in un rapporto con una donna, si limita a delle carezze, ovviamente impacciate, e non va oltre. Lei si meraviglia, ma non poteva capire la trasformazione, tardiva, che si stava compiendo in lui. E c’è anche un’altra prima volta per Poitaud: non avverte più quell’atavica paura che ha sempre cercato di nascondere con un comportamento sfrontato, nel momento in cui preme l’acceleratore per schiantarsi contro un platano. Per un uomo che non era mai riuscito a stabilire un rapporto solido con gli altri – salutava ogni donna con l’insulsa espressione “ciao cocca” e ogni uomo con la stereotipata formula “ciao bello” – quel tragico gesto di ribellione ad un vuoto di affetti mai colmato viene a configurarsi come una sorta di eroismo. Un eroismo negativo – lascia intendere la magistrale penna di Simenon – in cui si spegne il respiro di una vita sciupata nel vizio e a cui non ha arriso, se non troppo tardi, un labile afflato di redenzione.
