Nel processo di sperimentazione linguistica l’opera “Le onde” (1931) di Virginia Woolf rappresenta una tappa di rilievo strategico non solo per la narrativa della scrittrice britannica, ma anche per la storia letteraria del Novecento. Alla struttura composta e granitica del romanzo tradizionale viene a sostituirsi un’architettura sbrigliata e fluida, in cui il linguaggio è funzionale all’espressione nitida e schietta del pensiero. Di conseguenza, il paziente e calibrato lavorio sulla parola non si risolve in un atto puramente semantico, ma costituisce un esercizio preliminare, di importanza nevralgica, diretto a favorire una cristallina manifestazione di idee e di vicende, sotto l’egida di una perfetta alleanza tra segno grafico e riflessione filosofica.
Non a caso, dunque, Marguerite Yourcenar ha definito “rivoluzionario” questo romanzo, che racconta il flusso del tempo attraverso i monologhi interiori di sei amici. Nei loro soliloqui – afferma la scrittrice, anglista e traduttrice Nadia Fusini – essi “dicono” fatti e vite, “pensano” meditazioni e sogni. Le voci si confondono nel tempo che passa, “trasformando” i bambini in ragazzi e in adulti. Le voci si confondono in un unico “fiato”, come un’onda che narra “l’esistenza di ciascuno dei sei, e non solo la loro”.
Una saliente particolarità dell’opera consiste nel fatto che la Woolf forgia una forma narrativa basata sul ritmo anziché sulla trama, per consentire al pulsare della vita di emergere, per cogliere anche nel più riposto dettaglio l’energia che palpita nelle cose, nelle azioni, nei sentimenti.
Alla distinta eleganza della forma fa da contraltare, a tratti, l’espressione ruvida degli interlocutori. In un passaggio del romanzo ricorre, con inquietante frequenza, la parola “odio”. La dichiarata indignazione si scaglia, tra l’altro, contro “la pompa, l’indifferenza e l’enfasi”, che in ogni circostanza sono sempre fuori luogo”. L’odio investe la gente che “si mette in mostra sotto i lampadari, in abito da sera, indossando stelle e decorazioni”. Verrebbe naturale rilevare che vi sono atti e atteggiamenti ben più gravi che suscitano odio e che esso potrebbe risultare esagerato in riferimento a situazioni non così critiche. In coscienza, tuttavia, la verità denunciata dalla Woolf è la verità che dimora nell’animo di ciascuno di noi: chi non si trova, prima o poi, a “odiare” per motivi in fin dei conti non proprio seri e determinanti?
Ma non c’è solo odio. Spicca, infatti, nel serrato flusso di coscienza, la vellutata sensibilità verso contesti apparentemente anodini, privi di clamore. Attraverso una delle voci la scrittrice, infatti, invita ad apprezzare, nella sua dignitosa obiettività, il ramoscello di una siepe, il tramonto su un piatto campo invernale, come pure il modo in cui una vecchia signora sta seduta in autobus, con le mani sui fianchi, i gomiti in fuori e la sua cesta. “E’ un sollievo così grande poter indicare una cosa, perché l’altro la guardi”, osserva la scrittrice.
L’onda che la Woolf insegue nel romanzo per descriverla nel suo moto, fino a specchiarvi il movimento stesso della sua propria scrittura – sottolinea la Fusini – si rifrange su sponde ed elementi differenti. Essa “batte sulla roccia della lingua, che la scrittrice rende avvolgente e poetica, e si rompe contro sensazioni difficili da trasportare dal loro accadere interiore all’esteriorità della frase compiuta”. L’onda si spezza contro “l’incoerente ammasso in deriva di detriti di pensieri” che giungono da troppo lontano perché si plachino in composte modulazioni linguistiche. Eppure l’autrice non può non volere la forma, e la cerca e la raggiunge secondo una cadenza che è ritmica.
“E il ritmo – evidenzia la Fusini – è quello sempre uguale, eternamente mobile, eternamente ripetitivo, delle onde, che percepiremo come forma, se sapremo a lungo guardare, fino a perderci nel disegno che nell’infinità del movimento si ripete, sì che una cresta d’onda si accavalla sopra all’altra, la travolge, si annulla in essa”.
Tra l’incalzante rifrangersi delle onde si insinua l’afflato della poesia o, meglio, di una prosa che si fa poesia. Scrive la Woolf: “Il sole non era più nel mezzo del cielo. La luce cadeva obliqua, di sguincio. Qui si impigliava nell’orlo di una nuvola e la riduceva a una fetta fiammante. Poi un’altra nuvola veniva catturata e un’altra ancora, così che sotto le onde sembravano trafitte da dardi infocati, piumati, che sfrecciavano senza direzione attraverso l’azzurro cangiante”. A dominare è un vibrante sentimento panico, magistralmente espresso sfrangiando l’intimo tessuto della parola e vivificando, a partire dalle sue intime radici, le potenzialità del pensiero.