E’ stato uno degli eroi meno celebrati della seconda guerra mondiale Witold Pilecki, militare polacco che fece l’esatto contrario di tutti coloro che allora si ritrovarono coinvolti in una situazione tragica: cercò di entrare ad Auschwitz mentre gli altri volevano uscirne. Allora fu giudicato un pazzo ma c’era del metodo in quella pazzia. Pilecki voleva documentarsi di persona sugli orrori perpetrati nel campo di concentramento per poi presentare alle forze alleate il materiale utile a inchiodare gli aguzzini alle loro responsabilità. Il suo grido d’allarme, tuttavia, rimase pressoché inascoltato.
Questa vicenda rappresenta il fulcro del libro “The Volunteer” di Jack Fairweather. L’autore sottolinea che il militare polacco venne a configurarsi come un testimone d’eccezione delle crudeltà inflitte ai prigionieri e, al contempo, s’impose come stratega, capace di organizzare un movimento di resistenza all’interno di un luogo simbolo di morte, e in cui una parola di troppo e una sussurrata delazione potevano costare l’esecuzione immediata.
Nel settembre del 1940 Pilecki si fece arrestare dalla Gestapo e fu quindi tradotto ad Auschwitz. Un anno dopo il militare riuscì a far filtrare il suo rapporto. Il 18 marzo 1941 quel rapporto giunse sui tavoli dell’Ufficio VI dello Stato maggiore dell’esercito polacco che lo girò immediatamente agli inglesi, i quali lo giudicarono “esagerato”. Quasi mille giorni Pilecki rimase ad Auschwitz. Riuscì ad evadere nella notte tra il 26 e il 27 aprile 1943. Nuovamente sottopose il rapporto al governo britannico: questa volta era più dettagliato e, quindi, più raccapricciante. Ma anche questa volta, si evidenzia nel libro, Londra e le forze alleate non si mossero come avrebbero dovuto.
L’inascoltato grido d’allarme lanciato da Pilecki voleva porsi come baluardo a difesa del rispetto dell’individuo, della sua dignità e della sua incolumità. All’epoca da più parti si stavano levando denunce su quanto veniva perpetrato nei campi di concentramento. Sulla scorta di tali denunce, alcune organizzazioni umanitarie contribuirono a far aprire gli occhi, almeno in parte, alla comunità internazionale. Con gradualità l’azione svolta da Pilecki cominciò ad essere presa in considerazione, fino ad essere valutata in tutta la sua importanza e grandezza. Ma questo riconoscimento fu tardivo.
La vicenda di Pilecki richiama quella del soldato britannico Denis Avey, testimone volontario della Shoah, che nel 1944 entrò ad Auschwitz due volte perché tormentato dal “bisogno di sapere”. Rimase nel lager pochi giorni, più che sufficienti per osservare le inaudite violenze. Si era sostituito a un detenuto ebreo conosciuto sul luogo del lavoro forzato che accomunava prigionieri di guerra e altri internati. Anche l’accorato appello di Avey, che aveva denunciato al mondo quanto aveva visto, rimase disatteso. “Nel 1945 nessuno aveva voluto ascoltarmi” scrisse nelle sue memorie.
Jack Fairweather definisce “eccezionale” il coraggio di Pilecki. Un coraggio che fu speso anche nel sostenere la causa della sua Polonia, allora sottoposta ad un radicale processo di sovietizzazione, che includeva arresti, fucilazioni e deportazioni dei resistenti polacchi appartenenti a vari movimenti patriottici. In quel contesto torbido e minaccioso Pilecki fu costretto ad agire sotto identità fittizie. Una volta scoperto, fu sottoposto ad un processo-farsa. La sentenza, ovvero la condanna a morte, era stata scritta ancor prima che quel processo avesse inizio. Fu giustiziato, con un colpo alla nuca, in una cella della prigione di Varsavia il 25 maggio 1948. La doverosa valorizzazione della sua figura e della sua opera è avvenuta solo dopo la caduta del Muro di Berlino.
