Non c’è nessuna azione che possa riportare in vita gli esseri del creato inquinati dalla deriva della mente umana, irretita in una logica deleteria e disfattista. E’ di sconcertante attualità il monito, riguardo all’ambiente, lanciato da Anton Cechov ne “Il gabbiano”. Così recita un passo del monologo intessuto dalla giovane Nina: “Gli uomini, i leoni, le aquile e le pernici, i cervi dalle maestose corna, le oche, i ragni, i pesci silenziosi abitatori dell’acqua, le stelle marine e tutti quegli esseri invisibili ad occhio nudo, in una parola, tutte le vite”: queste vite si spensero o sono sul punto di esserlo, a causa della noncuranza dell’uomo nei riguardi della natura e delle sue ineffabili bellezze. E quando non è noncuranza, è, addirittura, disprezzo.
Lo scrittore e drammaturgo russo sferza i suoi simili perché si mostrano “ingrati” verso i doni e i talenti custoditi nel creato: violando questi doni e mortificando questi talenti, il creato diventa “freddo e deserto”.
Quando “Il gabbiano” andò in scena la prima volta, il 17 ottobre 1895 al Teatro Aleksandrinskij di Pietroburg, Cechov era seduto tra il pubblico. Le cronache dell’epoca raccontano che Cechov dovette “quasi fuggire” dal teatro quando si accorse che era presente. Infatti gli spettatori non avevano gradito quel messaggio contro l’uomo e in favore dell’ambiente: erano impreparati ad accoglierlo e videro in esso solo una gratuita provocazione. Come se non bastasse, la stampa stroncò l’opera, accusando l’autore di “languido decadentismo”. I critici, quindi, si focalizzarono sul monologo di Nina, definendolo astratto e intriso di una malinconia fine a sé stessa.
Bisognerà attendere successive rappresentazioni de “Il gabbiano” (le principali furono allestite al Teatro d’Arte di Mosca) per registrare il successo dell’opera, grazie anche all’interpretazione eccellente degli attori. Ad interpretare la giovane Nina, rendendo con maestria la drammaticità del suo ruolo, fu Olga Knipper, che sarebbe diventata la moglie di Cechov. Due anni dopo, nel 1897, lo scrittore compose “Zio Vanya”. Anche in quest’opera il drammaturgo assume una chiara posizione ambientalista. Esemplari, in tal senso, sono le parole di Elena, la moglie del professore Serebrjakov. “Voi tutti irragionevolmente rovinate i boschi, e presto sulla terra non resterà più nulla. Con la stessa irragionevolezza si rovina l’uomo, e, presto, sulla terra non resteranno né fedeltà, né purezza, né spirito di sacrificio”. In tutti, ella denuncia, si annida “il demone della distruzione”. E tale distruzione farà sì che ne “Il giardino dei ciliegi” (1904) vengano segati – per ordine di Lopachin, figlio di ex schiavi della gleba e ora arricchitosi – gli splendidi alberi di ciliegio per poter poi costruire piccoli alloggi da affittare ai turisti per l’estate.
Nella disperazione dell’ex padrona del giardino Ljuba si specchia. Con virtù profetica, la disperazione di Cechov.
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