Il terremoto di Lisbona, avvenuto il primo novembre 1755, non fu solo un disastro naturale (più di trentamila le vittime), ma rappresentò anche l’occasione per scatenare una fiera ed aspra polemica – divenuta celebra nel corso della storia – sul piano culturale e sociale. La catastrofe avviò, infatti, in tutta Europa una sistematica riflessione sulla spinosa e controversa questione legata alla presenza del male nel mondo.
Prima del terribile sisma, alcuni illustri pensatori – in particolare Leibniz, autore dei “Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male” (1710) – avevano elaborato e divulgato una visione ottimistica delle “dinamiche che governano l’universo”. Leibniz aveva dichiarato che quello presente era “il migliore dei mondi possibili” nonostante il male talora irrompesse per minare “i sani equilibri del cosmo”. Affermazione, questa, che compendiava la posizione del filosofo tedesco assunta in risposta alle idee del filosofo francese Pierre Bayle, il quale – nel segno di una radicale razionalismo – aveva messo in dubbio il valore della religione quale componente imprescindibile nella vita dell’uomo. Tale assioma aveva finito per tradursi in un’ardita tesi a sostegno di “una società di atei” caratterizzata dalla separazione, perentoria e recisa, fra la morale e la religione. Dal canto suo, Bayle aveva mosso una robusta critica alla teodicea di Leibniz, definendola “tremendamente ingenua” nel giustificare e accettare, senza batter ciglio, il male nel mondo.
In questo scenario s’inserisce Voltaire quando, un anno dopo il terribile sisma, scrive “Poema sul disastro di Lisbona, o dell’esame dell’assioma Tutto bene’”. Con quest’opera il filosofo francese formulò una sorta di proclama contro i sostenitori di “teorie giustificazioniste e consolatorie” sui mali nel mondo. Il bersaglio erano i fautori delle teodicee tradizionali e, quindi, in primo luogo i fondamenti della teologia cristiana di cui si era fatto vessillifero Leibniz, il quale aveva appunto teorizzato che “tutto è bene in questo nostro mondo”.
Nella prefazione al poema Voltaire così scrive di sé stesso: “L’autore si erge contro gli abusi che si sono potuti fare all’antico assioma ‘tutto è bene’. Egli adotta questa triste e più antica verità, riconosciuta da tutti, che c’è del male sulla terra e confessa che l’espressione ‘tutto è bene’, presa in senso assoluto e senza la speranza di un futuro, non è che un insulto ai dolori della nostra vita”. Il poema, che ebbe una stentorea eco in tutta Europa, contribuì sensibilmente a far maturare il pensiero moderno sul problema del male: non solo il male fisico, in quanto la polemica voltairiana coinvolgeva in blocco tutta la teodicea, e in particolare la compatibilità fra l’esistenza di Dio e l’esistenza del male nel mondo.
In una conferenza tenuta all’Università di Ginevra, il celebre bibliografo polacco Theodore Besterman, dichiarò: “Il terremoto del primo novembre 1755 colpì allora il mondo occidentale con un colpo di fulmine e trasformò per sempre la filosofia degli esseri pensanti, e ciò non di per sé, ma in quanto visto attraverso la sensibilità di un grande personaggio, ovvero Voltaire”. Quindi chiosò: “Ancora una volta un poeta è stato il legislatore dell’umanità”.
La tesi di Voltaire è di una lucida linearità. Il male nel mondo non può essere opera di Dio perché in tal caso non sarebbe un Dio buono e giusto. Eppure il male esiste e con esso bisogna fare i conti. Che il male sia parte del bene universale – tesi ricorrente in certa teodicea e fulcro del pensiero leibniziano – è per il filosofo francese uno “stravolgimento” della realtà in quanto ne nega la sofferenza ed è un “insulto” alle donne, agli uomini e ai bambini i quali, senza alcuna colpa, sono stati schiacciati a Lisbona dalle pareti delle loro stesse case e sono stati dunque vittime delle leggi di natura.
Alla stesura del poema Voltaire fece seguire, nel 1759, la pubblicazione del romanzo “Candido, o l’ottimismo” , in cui il male è rappresentato in tutte le sue manifestazioni, nel segno di un cupo e accigliato pessimismo. Il terremoto di Lisbona aveva prodotto in lui “un effetto prolungato”. Convinto sostenitore della versione newtoniana della provvidenza, ossia della necessità di supporre un’intelligenza regolatrice alla base dell’ordine cosmico, Voltaire, dopo il sisma, sentì vacillare in lui la fiducia sulla tenuta e sulla solidità di tale intelligenza. Di conseguenza in “Candido” la critica contro quell’ottimismo che supinamente e serenamente accetta il male si trasforma in un sarcasmo scoperto e feroce.
Partito da una fiducia spontanea, e poi rafforzata dal suo maestro Pangloss, di vivere nel migliore dei mondi possibili, il protagonista sarà sistematicamente segnato da amare e dure esperienze, le quali lo indurranno a correggere il suo primitivo giudizio sul mondo. Lungo il suo accidentato e travagliato cammino di formazione si alterneranno carneficine, terremoti, la persecuzione dell’Inquisizione, le malattie, la schiavitù. Candido stesso sarà perseguitato, e sarà costretto ad uccidere e sul punto di esserlo. Insomma sperimenterà, in sommo grado, l’infelicità della vita su sé stesso.
Tuttavia, in questo fosco e deprimente scenario è dato di scorgere, sebbene fioca, una luce di speranza. Candido, infatti, benché prostrato da tante disgrazie, si rivela sempre disposto a rinviare alla prossima occasione la conferma del corollario “tutto è bene”. Deluso ogni volta dalla smentita di un possibile riscatto, ogni volta è pronto a ricominciare. Al termine di tante acrobatiche peripezie, Candido arriverà alla persuasione che l’unico sollievo ai nostri mali sta in una assennata operosità, accompagnata da una saggezza spiccatamente pragmatica, la quale consiste “nel non porsi troppe domande e nell’occuparsi dei fatti propri”.
