Nell’empireo dei pittori che hanno riconosciuto nella luce un fattore nevralgico e strategico della loro arte figura, a pieno titolo, Caravaggio. Ha investito nella luce il suo spumeggiante talento al punto da identificare il valore materico e precettivo di essa con quello teologico e mistico. La luce, nella concezione caravaggesca, plasma le figure, determina ambienti e situazioni, ed è interpretata come apparizione simbolica (essa è “Grazia” nella Vocazione di san Matteo in san Luigi dei Francesi) o come fatto drammatico nell’intensità dei gesti dei personaggi (Martirio di san Matteo, nella medesima chiesa romana).
Svolge un ruolo così importante la luce nella struttura narrativa della tela che, di conseguenza, acquista importanza anche il buio, concepito non come opposto, ma complementare: anch’esso, dunque, si rivela redditizio nell’economia della realizzazione del quadro. Caravaggio ha vissuto la pittura con la consapevolezza di un visionario e in quest’ottica assurge a principio informatore la tecnica del chiaroscuro, dalla quale derivano sapienti e intriganti giochi di luce. In merito più di un critico ha osservato che l’artista ha anticipato il moderno uso della luce in riferimento agli effetti speciali realizzati nelle produzioni fotografiche e cinematografiche.
I due elementi essenziali della pittura di Caravaggio sono dunque la luce ed il buio. Alla luce viene conferito un ruolo primario, al buio secondario. Ma questa impostazione gerarchica non inficia affatto il contributo prezioso che l’oscurità offre alla tela, sempre ispirata dalla volontà di non rimanere confinata ad una rappresentazione lineare e scontata della realtà, della quale, invece, intende sondare anche gli aspetti nascosti e remoti. Del resto l’arte di Caravaggio spicca anche per una precisa funzione sociale espletata senza riserve e con coraggio (sfidando le rigide e miopi censure dell’epoca). Come osserva Giulio Carlo Argan, la pittura di Michelangelo Merisi si distingue per un realismo drammatico in cui il motivo religioso si fonde con la componente sociale. In virtù di questa impostazione, “il divino si rivela negli umili”. Il suo realismo si sviluppa da un’etica religiosa che non svapora nel copiare supinamente la natura, ma che si sublima nel rifiutare le convenzioni, nel puntare sul vero rinunciando alla ricerca, fatua ed effimera, del bello. Caravaggio disdegna l’invenzione e si concentra sui fatti: lungo questa discrimine l’uso della luce, nel mettere in evidenza i diversi elementi presenti sulla tela, assolve un compito essenziale.
Nella Vocazione di san Matteo non ci si può non chiedere da dove provenga quella luce misteriosa, quasi inquietante. All’attenta scenografia di una luce studiata, con certosina pazienza, da Caravaggio, si contrappone l’oscurità di uno sfondo anonimo. I volti e le mani – illuminati dal raggio di luce – che puntano nella stessa direzione richiamano la Creazione di Adamo di Michelangelo, nella Cappella Sistina, e il Cenacolo di Leonardo da Vinci.
L’uso della luce in Caravaggio non è mai casuale, o comunque adottato con stanca approssimazione. Al contrario, uno sguardo avveduto e metodico rivela una luce diretta (alcuni critici l’hanno definita addirittura “prepotente”) che si configura come una fonte specifica che illumina ogni cosa si trovi lungo il suo raggio, quasi fosse un raggio divino che promana dall’alto. La luce non è solo fisica, dunque, ma si carica di una robusta valenza allegorico-simbolica. Ad essa viene assegnata una precisa funzione: quella di evidenziare il sacro ed il profano, concepiti non in ostile antitesi, ma in funzione di una conciliante e costruttiva complementarità. Al contempo è da rilevare che prima di Caravaggio gli elementi naturali nella pittura avevano generalmente un ruolo secondario: facevano per lo più da sfondo alle composizioni pittoriche. La natura aveva un ruolo marginale, sottoposto alla volontà dell’uomo, e ai suoi capricci. Con l’uso magistrale della luce, Caravaggio ribalta consolidate e polverose gerarchie, e, di conseguenza, i cesti di frutta non si configurano come un elemento marginale nell’ambito della composizione: di essa diventano, invece, la protagonista, indiscussa e riverita. Tuttavia Caravaggio non fa sconti. Coerente al suo credo artistico, che privilegia il vero rispetto al bello, il pittore, grazie sempre all’uso funzionale della luce, denuncia i dettagli meno gradevoli della realtà quotidiana e, così facendo, scardina i canoni estetici del suo tempo.
Ecco allora che le sue tele sono “popolate” da piedi sudici, da unghie sporche, da frutta andata a male (o che sta per andare a male), da foglie accortocciate e appassite. Lo spettatore non si accorgerebbe di questi fondamentali dettagli se non ci fosse la luce ad evidenziarli: una luce spietata, cinica, cui nulla sfugge. Una luce impietosa ma alla quale ci lega, in verità, un debito di gratitudine. Grazie ad essa, ed alla missione che svolge, è possibile infatti penetrare negli intimi anfratti della realtà quotidiana, comprendendola meglio, più in profondità. Senza falsi veli, senza comodi e fuorvianti compromessi. E così diventiamo più maturi, più consapevoli di noi stessi.