Basta citare “Gente in Aspromonte” per richiamare la figura di Corrado Alvaro. Un fatto lusinghiero per l’autore, ma anche un riconoscimento che rischia di risultare solo parziale se si pensasse che in quella raccolta di racconti si esauriscono i talenti della sua produzione e i meriti dell’uomo di cultura. Alvaro, infatti, fu tra l’altro un letterato molto attento all’universo del teatro, come dimostrano non solo le sue recensioni, ma anche alcune prese di posizione, espressione di acuta sensibilità sul piano linguistico e contenutistico.
“La questione del teatro – affermò durante una conferenza – è un problema di cultura. Si tratta di rinnovare l’attore e la tecnica teatrale, dare al teatro un suo aspetto moderno, dargli una fisionomia pur nelle sue nuove parentele con i nuovi tipi di spettacolo, quali il cinematografo e il teatro di qualità, poiché le esigenze del pubblico moderno non si limitano più alla suggestione delle parole, ma si rivolgono a tutto quell’insieme sensibile e spirituale che è la caratteristica dei divertimenti morali. Occorre un teatro d’arte affidato a competenti, e non ad impresari”.
La sua carica polemica, che si riversa negli articoli pubblicati su “Il Mondo” e sul “Risorgimento”, va poi ad investire il mondo delle lettere in generale. “La letteratura italiana – osservava in un corsivo per “Il Mondo” – è costretta a vivere di accatti e di ripercussioni di quello che accade all’estero, e solo formalmente è nella tradizione italiana. La quale poi è ben diversa da quello che appare oggi, vale a dire oziosa, estetizzante, noiosa”. Lo scrittore rilevava che nelle tremila pagine di Machiavelli c’è “un senso di avventura e di libertà” da autorizzare “i tardi nepoti” a considerare la loro tradizione letteraria come un dominio di vasti confini.
Ma perduta la “stoffa” dei grandi italiani, è venuta a mancare la cultura italiana. Di conseguenza ci si trova a combattere “con l’ironia e con il bello scrivere”. Alvaro esortava dunque a tenere d’occhio in Italia “soltanto gli irregolari, quelli che hanno fama di scrivere male, di essere romantici e disordinati, scorretti e dialettali”.
Su questa importante questione Alvaro tornò, manifestando anche uno spirito patriottico ferito, in un passo de “Il nostro tempo e la speranza”, in cui dichiarava: “La fuga dell’italiano dai termini della sua vita comincia nella provincia e prosegue nella vita urbana. La fuga dell’intellettuale italiano comincia assai più remotamente, dal punto in cui l’Italia fu formata col pensiero e le armi altrui, e attese poi di essere liberata dal pensiero e dalle armi non suoi”.
In queste affermazioni si riflette la storia dello scrittore calabrese, oscillante, in termini dialettici, tra la cultura delle radici provinciali e la cultura nazionale. La sua fu una formazione che mentre esibiva con giusto orgoglio il valore di un’ancestrale identità, aspirava al contempo ad estendersi fino ad abbracciare un circuito letterario più ampio possibile, alla scoperta ricerca di un’impeccabile legittimazione.