Il Romanticismo aveva affermato che l’arte è un modo di vita, il Decadentismo mosse un passo avanti e dichiarò che la vita è in sé stessa un’opera d’arte. Gabriele D’Annunzio fece sua questa concezione. Per arrivare a tale obiettivo coltivò per tutta la vita uno stretto legame tra realtà e letteratura, tra vita vissuta e finzione artistica, in un intreccio di casi e situazioni che finirono per collocare la sua figura in uno scenario intriso di mito di leggenda. Fu raffinato ed elegante profeta di una religione mondana e pagana, alla costante ricerca di sensazioni rare ed elette, nel segno di un’acuta sofferenza verso convenzioni e costrizioni. Ma al di là di pose magniloquenti e talora ostentatamente retoriche, D’Annunzio fu un uomo tenero e malinconico. Come ha scritto il saggista Federico Roncoroni, il “vate” fu “un innamorato finché l’amore durava, e quando l’amore finiva conservava pur sempre una sorta di tenero ricordo delle amanti passate”. E fu un uomo capace di “piegarsi su sé stesso”, consapevole della sua intrinseca debolezza, comunque animata da una mai sopita ansia di superamento e di evasione.
Questa sensibilità, talora languida, talora fremente, ma che sempre tradisce un fonda di tenace umanità, si manifesta nella sua produzione poetica. Era ancora in collegio, appena sedicenne, quando pubblicò, a spese del padre, alcune poesia sotto il titolo “Primo vere” (1879). Queste liriche, che valsero a segnalarlo come una promessa della letteratura italiana, furono composte dietro la suggestione della lettura delle “Odi barbare” di Carducci. Prima della pubblicazione D’Annunzio così scrisse al “maestro”: “Io voglio seguire le sue orme. Anch’io mi sento nel cervello una scintilla di genio battagliero, che mi scuote tutte le fibre, e mi mette nell’anima una smania tormentosa di gloria e di pugne. Anch’io voglio consacrare all’arte vera i baleni più fulgidi del mio ingegno, i palpiti più santi del mio cuore, le tremende amarezze e le gioie supreme”.
A parte la dominante presenza di Carducci, la raccolta è sovraccarica di reminiscenze di scuola (i classici, soprattutto Orazio, e poi Foscolo, Leopardi) e risulta un po’ appesantita da temi elegiaci e da costruzioni mitologiche. Al contempo in “Primo vere” è dato di cogliere componenti che rivelano già come gli austeri modelli siano rivissuti con una fresca attitudine a gustare, quasi con voluttà, le parole e le immagini.
Quando nel 1882 pubblicò “Canto novo” D’Annunzio dimostrò che non si era ancora del tutto liberato del modello carducciano. Lo ammise egli stesso quando scrisse “C’era quel mago di Carducci che mi schiacciava. Ho avuto la forza di ribellarmi, e con un lento e laboriosissimo processo di selezione sono venuto fuori io, tutto io. Non mi resta che spezzare gli ultimi lacci e poi gettarmi nel mio mare”. Le liriche di “Canto novo” sono caratterizzate da una sorta di esplosione panica e celebrano con prepotente impeto “l’immensa gioia d vivere, d’essere forte, d’essere giovine, di mordere i frutti terrestri con saldi e bianchi denti voraci”. In quest’opera anche i temi e i motivi che paiono rifarsi a Carducci, come l’esaltazione della pagana gioia di vivere e l’affettuosa attenzione al paesaggio, sono liberati dalla serietà virile e fiera di cui le aveva avvolte il “maestro”, e vengono ridotti a sensuale amore della vita per la vita. Di conseguenza naturalismo e sensualismo s’impongono nella loro schietta immediatezza. E laddove il naturalismo, in questa raccolta di liriche, può risultare qua e là sconvenientemente corposo, esso viene poi riscattato da una spumeggiante ricchezza di notazioni impressionistiche che, a loro volta, celano già un presentimento di armonie segrete e di suggestive vibrazioni analogiche. In “Canto novo” si affaccia significativamente uno dei versanti salienti del registro dannunziano, quello languido e voluttuosamente malinconico: “O face di luna calante che brilli su l’acque deserte, o falce d’argento, qual messe di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!”.
Nella frastagliata produzione poetica di D’Annunzio figura la raccolta “Isaotta Guttadàuro ed altre poesie”, edita nel 1866 e costituita da liriche composte tra il 1883 e il 1886. Spicca, in tali componimenti, il tentativo di tessere una poesia eminentemente psicologica, che fosse, in sostanza, romantica confessione di sé. Da questo assunto deriva una poesia raffinata ed elegante, e scevra, nella sua ricercatezza virtuosistica, da ogni presupposto moralistico. La sezione intitolata a “Isaotta Guttadàuro” – con i suoi madrigali, la nona rima, le ballate in sequenze, le sestine – rivela scopertamente le sue origini letterarie. Ad di là della grazie leggera con cui i vocaboli – che si rifanno ai poeti del Trecento e del Quattrocento, in particolare a Poliziano – vengono rimodulati, è dato di cogliere con estrema facilità il carattere di puro esercizio di stile, di stampo parnassiano e, secondo la moda europea dell’epoca, di tipico gusto preraffaellita.
Nell’acceso groviglio di sperimentazioni, D’Annunzio nel sonetto “Al poeta Giovanni Marradi_” scrive che “Il Verso è tutto”: una dichiarazione programmatica che rivela come il poeta abbracci senza remore l’ideale decadente e asociale dell’arte per l’arte, facendo proprio il concetto dello splendido isolamento dell’artista chiuso in un sogno di bellezza e di voluttà. “Bevere – così recita il sonetto – giova con aperta gola ai ruscelli de’l canto, e coglier rose, e mordere ciascun soave frutto. O poeta, divina è la Parola; ne la pura Bellezza il ciel ripose ogni nostra letizia; e il Verso è tutto”. Versi, questi, in cui si specchia la compiuta teorizzazione di un estetismo integrale e di un edonismo parnassiano. In questo scenario si inserirà, a pieno titolo, Andrea Sperelli, il protagonista del romanzo “Il piacere”, descritto come un poeta che “più che il pensiero amava l’espressione” e i cui “saggi letterari erano esercizi, giochi, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità”.