Con “Conversazione in Sicilia” la disposizione lirico-narrativa di Elio Vittorini attinge il suo esito più alto. Già nella conclusione del suo primo romanzo, “Il garofano rosso”, erano riscontrabili segni che preludevano al passaggio dalla dimensione realista ad una rappresentazione simbolica. Del resto, all’inizio della sua carriera di letterato Vittorini aveva dichiarato: “Io gli scrittori li distinguo così: quelli che, leggendoli, mi fanno pensare ecco è proprio vero, dandomi conferma di ciò che già si sa della vita, e quelli che mi fanno pensare “non avevo mai supposto che potesse essere così”, rivelandomi un senso nuovo della vita”.
In questa prospettiva si compie quella “trasfigurazione allusiva” destinata a diventare la cifra morale e stilistica di Vittorini, e che con larghezza di elementi caratterizza l’impostazione narrativa di “Conversazione in Sicilia”.
Protagonista dell’opera è Silvestro, intellettuale e tipografo. In lui si concentrano e si fondono disperazione e malessere per quanto di brutto sta avvenendo nel mondo. Per fare visita alla madre, intraprende un lungo viaggio in treno da Milano al paese natale in Sicilia, lasciato quindici anni prima. Lì accompagna la donna ad assistere i malati di malaria e di tisi, e ha una rivelazione: queste persone simboleggiano “il mondo offeso”, ovvero quella parte di umanità oppressa e rassegnata al proprio destino. Alla netta differenza di paesaggio tra Milano e la Sicilia non corrisponde una diversità di condizione della storia.
Da un presente metropolitano “echeggiante massacri” Silvestro passa ad uno scenario fatto di montagne sperdute e trapunto di fichi d’India. Solo da principio egli avverte uno scarto fra il presente e il passato: ben presto si accorgerà che questi due tempi sono intimamente legati, addirittura sovrapponibili. Se pensava di rifugiarsi nel passato per fuggire “gli orrori” del presente, Silvestro si sbaglia. Anche “la piccola Sicilia ammonticchiata, ricca di nespoli e tegole”, è segnata dal “dolore del mondo”, quel dolore che investe pure “i piccoli siciliani curvi nelle spalle e scuri in faccia”.
Come si può combattere questo dolore? Ognuno ha la sua ricetta. L’arrotino Calogero reclama forbici, coltelli e punteruoli per ingaggiare la sua rivolta; Porfirio invoca l’acqua per “lavare le offese e dissetare il genere umano”; il fiero Gran Lombardo auspica l’avvento di non ben precisati “nuovi alti doveri”. Si tratta di nuclei ideologici che, proprio in virtù della trasfigurazione allusiva, vengono a configurarsi come categorie morali.
La presenza di schegge realistiche in una struttura simbolista finisce, tuttavia, per far perdere un po’ di mordente alla carica polemica insita nell’opera. L’atmosfera rarefatta, con sfumature oniriche o surreali – lo scrittore dice di aver scelto il nome Sicilia perché “gli suona meglio di Persia o Venezuela” – non corrobora, anzi talora fiacca, la volontà di denuncia che invece vibra potente e che, per risultare più incisiva, avrebbe avuto bisogno di più realismo e di meno simbolismo.
Occorre tuttavia tenere presente che lo scrittore si trovava nella condizione di “censurare un po’ di sé stesso” per non esporsi troppo nella sua opposizione al fascismo dominante e nella sua critica all’oppressione poliziesca. Al contempo va ascritto a Vittorini il merito di aver generato -attraverso il crogiolo di enunciazioni formulate dai diversi personaggi – una dimensione polisensa, che sottrae le pagine del romanzo al dato contingente e storicamente circoscritto. In conformità a questa impostazione, la parola stessa abdica alla funzione di mezzo espressivo unico, inderogabile nella sua categoricità, per rivestirsi – atto di omaggio alla lezione dell’Ermetismo – di un valore fonico ricco di suggestive sfumature, fertile di dinamiche implicazioni e ammantato di una ieratica solennità.