In un articolo intitolato “Quello che resta da fare ai poeti” (1912), Umberto Saba fissò i canoni fondamentali della sua poetica. Un articolo importante, dunque, ma la rivista “Voce”, cui era stato inviato, decise di non pubblicarlo. Saba dichiarava, con spirito fiero, che i poeti devono fare “poesia onesta”. In merito a questa perentoria enunciazione, egli operava una netta distinzione fra Manzoni e D’Annunzio. “A chi sa andare – affermava – ogni poco oltre la superficie dei versi, apparisce in quelli del Manzoni la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione; mentre vede che l’artificio del D’Annunzio non è solo formale, ma anche sostanziale. Egli esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento. Questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso”.
Lanciando dunque una dura critica contro ogni estetismo e contro ogni velleità di restaurazione del “letterato di professione”, cui la bellezza interessa più della verità, Saba stabilisce un principio al quale il poeta non deve derogare: ovvero, “non sforzare mai l’ispirazione”. Di conseguenza chi si accinge a comporre versi deve vigiliare affinché non cada nella tentazione di farsi “prendere la mano” dal verso. Al contempo, non deve cedere alla lusinga di una rima seducente: il rischio è che la dimensione prettamente esornativa finisca per condizionare il lavoro di analisi e di scandaglio che ogni poeta, “degno di questo nome”, è chiamato a compiere con i propri componimenti.
Saba dunque invita “i colleghi di professione” a sacrificare, “per il bene della propria anima”, l’applicazione di ogni “lenocinio” e di ogni “artificio”, perché il verso concepito in questa prospettiva non può che risultare “menzognero”. Per Saba il poeta è colui che lavora, con indefessa cura e scrupolo rigoroso, per approdare al vero, il quale consiste nel “ritrovar sé stessi”. Solo conformandosi a questo metodo, il poeta saprà essere “originale”.
Eloquente, al riguardo, è il verso: “Amai la verità che giace al fondo”. Un verso in cui si specchia un manifesto poetico, basato sulla volontà di configurare l’esercizio poetico come un’azione diretta a sondare i più remoti recessi dell’animo umano, così da potersi orientare nel labirinto del proprio io. Da questa impostazione deriva l’attenzione sempre viva nei riguardi di ogni aspetto della vita, anche quello apparentemente più banale e dimesso. Un’attenzione che non si concentra solo sulla realtà oggettiva delle cose, ma anche e soprattutto sulla vasta gamma di affetti e tensioni che plasmano l’interiorità di ogni individuo. Alcuni critici hanno stabilito un legame, riguardo a questa concezione, tra Saba e i crepuscolari. Tuttavia è dato di riscontrate una significativa differenza.
Mentre Guido Gozzano, il cui nome si lega alla corrente letteraria post-decadente del crepuscolarismo, con il suo distacco ironico prendeva le distanze dalla materia umile, e le “buone cose” venivano subito dopo qualificate “di pessimo gusto”, la scelta di Saba è invece convinta adesione sentimentale, calorosa simpatia umana. Una simpatia che abbraccia il vecchio Caffè Tergeste, “caffè di plebe”; il “vecchietto” che “il pasto senza vino ha consumato” e la gallinella la cui cresta suggerisce al poeta la visione di “tutta una fattoria piena di sole”.
Per dare voce a questo mondo di cose e di sentimenti, il poeta ricerca la parola non per il suo potenziale di riposte suggestioni, alla maniera di D’Annunzio, o per le dinamiche analogiche ad essa intrinseche, come gli ermetici, ma per la sua pregnanza semantica, ovvero per la sua capacità di oggettiva definizione della realtà. In Saba sono escluse le mediazioni della cultura, le quali, stabilendo tra parole e cose passaggi taciuti , fanno gravare sulle parole – come ha scritto Giacomo Debenedetti – “occulte forze, creando paesaggi segreti e sfondi mormoranti”. In Saba, invece, sottolinea il grande critico letterario, “la parola è quella domestica, la prima venuta. Parole senza storia”. Dal verso di Saba emana, dunque, “un sapore antico”, il quale indica la capacità del poeta di abbandonarsi al canto, intonato entro moduli legati ad una sana e schietta tradizione poetica che bandisce qualsivoglia complicazione intellettualistica.