Secondo il giudizio romantico e postromantico, “Re Lear”, composto da William Shakespeare nel 1605, non si prestava ad essere rappresentato sulla scena. Henry James così sentenziava: “Re Lear non è un dramma da recitare, è piuttosto un grande e terribile poema”. In sintonia con lo scrittore statunitense si poneva A.C. Bradley, fondatore della moderna critica shakespeariana, secondo cui Re Lear non è il miglior dramma del cigno di Stratford-upon-Avon, “sempre che di dramma si voglia parlare”. In realtà, come rileva l’anglista Agostino Lombardo, quest’opera è penetrata profondamente nell’humus dell’universo culturale proprio in quanto “teatro”, tanto che – lungi dall’essere allergica ad un’eventuale rappresentazione – essa può essere definita “la più teatrale” di Shakespeare. In tale opera, infatti, il linguaggio del drammaturgo raggiunge la sua più alta intensità ed espressività.
La trama stessa è funzionale alla celebrazione di un linguaggio diretto ad esplorare, con spiccata ed aggressiva evidenza, i moti dell’animo e le ragioni della vita. Re Lear decide di abdicare e di dividere il suo regno tra le tre figlie, Goneril, Regan e Cordelia. Il sovrano propone una gara nella quale ogni figlia riceverà dei territori in proporzione all’amore verso il padre che saprà dimostrare con le sue parole. Simbolo di virtù e rettitudine, Cordelia si rifiuta di impegnarsi in un gioco di adulazione nel quale, invece, si crogiolano le due sorelle. Solo quando sarà troppo tardi il re – che aveva bandito Cordelia recalcitrante alla sfida da lui lanciata – comprenderà, alla luce della vile ipocrisia di Goneril e Regan, di aver commesso un tragico errore.
E’ dunque la parola – con l’uso che se ne fa e con la dimensione teatrale che gradualmente essa acquisisce nell’incalzante dipanarsi del dramma – a svolgere un ruolo centrale. La parola, che si carica di vibrante intensità (gli stessi monosillabi rivestono una funzione significativa) è intimamente connessa all’azione. In tale prospettiva essa si configura come un elemento di quel più vasto tessuto fatto di recitazione e movimento scenico che rappresenta proprio la classica immagine teatrale, ovvero il luogo deputato per eccellenza a sublimare, nella loro forma compiuta, i diversi significati dell’opera. Nel “Re Lear” – dramma della solitudine, dell’incomprensione e dell’ingratitudine – non c’è parola che non pretenda, pur nel pieno della sua intrinseca forza verbale, di essere calata nella realtà scenica. Le due scene – in cui vengono rappresentate la finta follia di Edgar, figlio legittimo del conte di Gloucester, e quella vera di Lear – trovano la loro ragion d’essere proprio in quanto “teatro”, potendo esse contare sull’avallo di una totalità espressiva che solo la dimensione squisitamente teatrale può garantire.
Nel corso del dramma si sviluppa anche una narrativa metateatrale, alimentata dalla sofferta riflessione sull’opportunità, o meglio sull’urgenza, di saper distinguere tra la parola “falsa” e la parola “vera”. Alla fine della tragedia Edgar dichiara: “Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire”. Tuttavia per approdare a tale fondamentale consapevolezza e dunque per arrivare a dominare le possibili perverse conseguenze di questa insidiosa distinzione, è necessario effettuare un passaggio – esemplarmente incarnato da re Lear – scandito dal dolore e dalla follia e poi suggellato dalla morte. E’ un tragico percorso, ritmato dall’uso, oculato o meno, che si fa della parola. E nel momento in cui separa il nome di re dalla sostanza in cui esso si invera, Lear commette l’irredimibile colpa che determina la sua caduta. Il linguaggio, allora, invece di illuminarlo, lo rende cieco.