Nel “Misogallo” Alfieri scrive: “Il mio nome è Vittorio Alfieri. Il luogo dove io son nato l’Italia. Nessuna terra mi è patria”. Per lui una patria senza libertà non è patria, poiché questo è il concetto nuovo di nazione che si veniva elaborando in Europa sul finire del XVIII secolo: la nazione nasce come filiazione interna della libertà, come suo corollario. La nazione non si ha per ragioni etniche o per accomodamenti diplomatici, ma per affinità elettiva di spiriti liberi. Dal canto suo Foscolo, sebbene di fede alfieriana, amava mescolarsi al mondo, quel mondo di fronte al quale Alfieri recalcitrava. La morte invocata da Foscolo è una forma di lotta, non una rinuncia ad essa. La morte è bramata per l’avvento di una più alta vita. Il Catone uticense di Dante ritorna nella mitologia dell’”Ortis”, imbevuto di un’atmosfera alfieriana: la morte per l’esaltazione del regno della libertà.
La libertà di Foscolo non è la libertà religiosa del Catone dantesco, ma è la libertà religiosa dei tempi nuovi, quella che prelude al riscatto politico dei popoli. Scrive de Sanctis: “Alfieri è l’illusione, Foscolo è il disinganno. Tutti e due sono la vuota idealità del loro secolo. L’uno non ne ha coscienza, anzi l’orgoglio e la fiducia di chi si sente nella vita; l’altro ne ha coscienza che l’uccide. L’uno ha tutta l’energia dell’illusione, l’altro ha tutte le disperazioni del disinganno”.
Foscolo, non ancora ventenne, è un animoso militante, un alfieriano che sa immettere la morale alfieriana nella vita e nella storia. Alfieri, che pur morì nel 1803, non si accorse, o non volle mai accorgersi, di Napoleone. L’astigiano è un po’ come l’Adelchi manzoniano, che effonde la sua elegia sulla libertà – elegia che assume il tono dell’invettiva irosa – sempre in solitudine, mentre Foscolo è un po’ come fra Cristoforo, che mantiene intatte le idealità cristiane di Adelchi ma le cala nella vita e va a perorare la causa del giusto fin nella tana del prepotente e “attacca baruffa”. Questa è la positività di Foscolo e il suo progresso di idealità politica rispetto al suo metafisico maestro.
Foscolo si mescolava a quel mondo che Alfieri, con sublime ira, abiurava, tutto chiuso nel recinto del suo io virginale. “Vittorio mio, questa per te non era età né suolo” avrebbe scritto, con profonda intuizione, Leopardi nel 1820. Foscolo inocula il fremito alfieriano nella realtà storica. Scrive de Sanctis: “Il disinganno uccide Jacopo, ma non uccide Foscolo. L’esercizio della vita scampò Foscolo da quella consunzione. Nel suo sentimentalismo vi era sempre il tribuno che ululava, lo spirito guerriero che gli ruggiva dentro. Il suo dolore è furore, maledizione, ribellione. E’ forza compressa in forzato ozio che vuol traboccare”. In ogni momento Foscolo è un malato e un guarito. Malattia e guarigione sono i termini irrequieti della sua eterna vicenda interiore, un’altalena della sua vita morale. Egli non appartiene a quella categoria di uomini che cedono a bruschi iati, a svolte senza ritorno. Come il gusto di una sdegnata solitudine fu costante in Alfieri, così il gusto impetuoso dell’esperienza storica, la passione per l’alterna onnipotenza delle umane sorti, fu la caratteristica fondamentale dello spirito foscoliano. Il motto di Foscolo potrebbe essere il “cadde” e “risorse” manzoniano, ma il suo accento evita il definitivo “giacque”.