Rappresenta una solenne sintesi dell’esperienza letteraria e sociale di Balzac il romanzo “La pelle di zigrino”, pubblicato nell’agosto del 1831 e subito coronato da un grande successo editoriale. Il protagonista è il giovane marchese Raphael de Valentin, orfano e povero, tanto ambizioso quanto incapace di affrontare le difficoltà e le insidie della vita: tanto che decide di uccidersi. Entrato casualmente nel magazzino i un vecchio antiquario, tra i numerosi oggetti che attraggono la sua attenzione figura una pelle di zigrino, ovvero un talismano che ha la magica proprietà di realizzare i desideri di chi lo possiede. C’è tuttavia il rovescio della medaglia: ad ogni desiderio esaudito – lo avverte l’antiquario – la pelle si ritrarrà e con essa la durata della sua vita.
Nel rivolgergli questo ammonimento, l’anziano lo invita a riflettere se sia meglio bruciarsi come una falena, inseguendo senza indugi il piacere, oppure condurre un’esistenza lunga, ma scevra di passioni e vibrazioni. Per poi affermare, lucido e cinico: “il vostro suicidio non è che ritardato”. Il giovane marchese, senza tentennamenti, accetta il patto, convinto che la vita non è degna di essere vissuta se non si possono appagare i propri sensi. E non tesaurizza il consiglio contenuto nelle parole dell’antiquario (la cui esistenza è guidata e regolata dalla razionalità) che dichiara: “Voglio rivelarvi in poche parole un grande mistero della vita umana. L’uomo si esaurisce con due atti istintivamente compiuti, che inaridiscono le sorgenti della sua esistenza. Due verbi esprimono tutte le forme che assumono queste due cause di morte: volere e potere. Tra questi due termini dell’azione umana – evidenzia l’antiquario – vi è un’altra forma di cui si impadroniscono i saggi, ed io debbo ad essa la felicità e la mia longevità. Volere ci brucia e potere ci distrugge; ma sapere lascia la nostra debole organizzazione in un perpetuo stato di calma”.
La lezione “confezionata” dall’antiquario non è accolta dunque dal marchese che si dà subito ad una vita di dissipazione, in una Parigi dominata dal denaro, dalla corruzione e dalle convenzioni sociali. Nella frenesia di dare sfogo a tutte le sue smodate aspirazioni, la pelle di zigrino si consuma a ritmo incalzante: e così si sfibra e si riduce il tessuto della sua logora e logorata vita. In questo inquietante scenario Raphael de Valentin conoscerà anche l’amore, o meglio, quello che egli considera tale. Passerà da Fedora, una nobile russa “dal cuore di pietra” a Pauline, “l’angelica”, simbolo di ingenuità e di candore. Quando, un giorno, si accorge che la pelle di zigrino è ormai ridotta ad uno spento brandello, cercherà invano di scongiurare il suo destino sfuggendo ad ogni suo desiderio: si isolerà, peregrinando tra stazioni termali e remoti rifugi bucolici in Alvernia. Ma è troppo tardi, e non esiste rimedio. La condanna è ormai scritta, e Raphael de Valentin sparirà, e insieme con lui il suo talismano.
Attraverso la figura, complessa e tormentata del protagonista, Balzac volle ritrarre e denunciare i mali della società contemporanea, concepita come un ingranaggio illusorio e distruttivo. In questa vibrante critica lo scrittore si manifesta apertamente come figlio del suo tempo, partecipando del clima di profonda delusione e sconfortante scetticismo seguiti alla rivoluzione del 1830, cui si legavano plausibili speranze di riscatto sociale e morale. Nello stesso tempo Balzac elevò il protagonista del romanzo ad espressione esemplare dell’incapacità dell’uomo di dominare le proprie pulsioni e passioni, e ciò a detrimento non solo di se stesso, ma anche di coloro che lo circondano e che provano per lui sentimenti di affetto e di amicizia.
Nella drammatica storia del giovane marchese è dato anche di constatare la legittima aspirazione ad una vita che non sia piatta e noiosa. In lui si specchia quel guizzo (il riferimento a Madame Bovary s’impone naturaliter) teso a colmare, per quanto sia possibile, il divario tra realtà e sogno. Un divario che, in realtà, rimarrà sempre tale, e nel suo abisso precipiterà chiunque tenti di sanarlo. Ma in questo sforzo, a suo modo titanico, votato al fallimento, si celebra il valore di una tensione spirituale che fa onore al protagonista, impegnato a liberarsi dai lacci di un soffocante protocollo sociale nutrito di formalità e codici che finiscono per mortificare ogni slancio ed ogni scarto da una stantia quotidianità.
Anche in merito alla figura del giovane marchese, torreggia la maestria di Balzac nel coniugare il tratto fisico e l’istanza morale. “Quel volto – scrive – non aveva più di venticinque anni e il vizio vi appariva soltanto cosa accidentale. La verde vita della giovinezza di appariva ancora con le devastazioni di un’imponente lubricità. Le tenebre e la luce, il nulla e l’esistenza vi si combattevano, producendo al tempo stesso grazie ed orrore”.
Più di un critico ha accostato la figura del marchese Raphael de Valentin a quella di Dorian Gray, la celeberrima creatura di Oscar Wilde. Entrambi sono tragicamente irretiti dalla bramosia di valorizzare e di esaurire, senza lasciare residuo alcuno, il proprio potenziale umano, cercando di trarre dalla vita ogni stilla, per non dover confessare a se stessi, al termine del proprio percorso esistenziale, di non aver vissuto. Sia Raphael che Dorian sembrano stabilire (senza in realtà sancirlo ufficialmente alla maniera goethiana) un patto con il diavolo: mettono a rischio la propria incolumità, si espongono con tensione prometeica alle insidie dell’ignoto, in nome di un’aspirazione più grande, che credono – forse anche in buona fede – nobile e redimente. Per poi accorgersi, alla fine dell’avventura, che tale aspirazione si traduce nel granitico verdetto sulla sconfitta dell’uomo incapace di scendere a compromessi con il destino e le sue leggi. Un verdetto che rende le creature di Balzac e di Wilde ostili sia alla terra che al cielo.