Sosteneva Francois Truffaut che con l’irruzione di Hitchcock sulla scena, il cinema non fu più lo stesso, avendone rivoluzionato, in meglio, il senso, la prospettiva e le potenzialità. Come dargli torto! E nel leggere, con crescente attrazione, l’interessantissimo libro di Rosario Tronnolone intitolato “Alfred Hitchcock. Ritratti di signore” (Roma, AE EdizioniSabinae, 2021, pagine 307, euro 20) si riscontra l’ennesima conferma della grandezza del genio del regista inglese che fece della semplicità, elevata ad una dimensione sublime, il tratto distintivo del suo magistero. Va ascritto a Tronnolone il merito di aver saputo trattare un soggetto – già protagonista di innumerevoli pubblicazioni – da un’angolazione inedita. O comunque poco praticata. L’autore, infatti, dipana una serie di incisivi ritratti delle attrici che hanno segnato con la loro presenza e con la loro recitazione pellicole rimaste indelebili nell’immaginario collettivo. Dietro le scene si sussurra che il rapporto tra Hitchcock e le attrici (e anche con gli attori) non fosse, tanto per usare un eufemismo, idilliaco. Ma è indubbio che il legame, da un punto di vista della resa squisitamente cinematografica, si rivelò particolarmente redditizio: anzitutto, per le donne che si cimentarono sulla scena. I loro talenti furono infatti valorizzati dal regista come meglio non si sarebbe potuto.
Nell’introduzione Tronnolone sintetizza esemplarmente una delle caratteristiche principali Hitchcock, il quale “ha saputo coniugare quello che normalmente si chiama cinema d’autore con il successo commerciale, la ricerca e la sperimentazione stilistica con la riconoscibilità rassicurante del cinema di genere, l’angoscia con l’umorismo”. Ricorda l’autore che Hitch (così lo chiamavano gli amici) cominciò a lavorare nel cinema giovanissimo, come disegnatore di bozzetti: esperienza che in seguito gli fu utilissima con il disegno precisissimo dello storyboard. Tanto che arrivò a dichiarare che tutto il divertimento era già finito prima di iniziare il lavoro sul set perché sapeva esattamente come sarebbe venuto il film per averlo visualizzato in precedenza nei suoi disegni.
Il libro si fa apprezzare anche per la ricca messe di aneddoti che lo impreziosiscono. Joan Fontaine raccontava – rammenta Tronnolone – di essersi sentita a disagio sul set di “Rebecca” perché era convinta che l’attore principale, Laurence Olivier, non la considerasse abbastanza brava. E Hitchcock sembrava alimentare questa sua convinzione, “raccontandole in tono casuale, appena prima di girare una scena, che lo stesso Olivier o qualcuno degli attori aveva espresso un’opinione sfavorevole su di lei”. Solo molti anni dopo la Fontaine si rese conto che il regista aveva utilizzato questo metodo per ottenere da lei la sottile sensazione di disagio, di impaccio, di ansia che il suo difficile personaggio richiedeva.
Di citazioni pittoriche – rileva l’autore – il cinema di Hitchcock è pienissimo, e in particolare di riferimenti al surrealismo. Basti pensare alla fuga dei due protagonisti sulla cima dei Monti Rushmore in “Intrigo internazionale”. Nel caso di “Io ti salverò”, l’amore per il surrealismo non si limitò ad un riferimento pittorico, ma si tradusse nella collaborazione al film di Salvador Dalì, con particolare riguardo per le celeberrime scene del sogno. Ma “Io ti salverò” è passato alla storia anche perché rappresentò il primo incontro con un’attrice, Ingrid Bergman, che sarebbe diventata per il regista la musa ispiratrice, “un ideale di attrice e di donna che avrebbe inseguito per tutti il resto della sua carriera”. I due si intesero sin dal primo momento. Condividevano la cura minuziosa dei dettagli, “l’amore sviscerato” per il lavoro, la decisione di non risparmiarsi pur di ottenere il risultato migliore, nonché “un comune senso dell’humour”. Inoltre, osserva giustamente Tronnolone, la Bergman possedeva la nordica bellezza e la sofistica apparenza di fragilità che Hitchcock prediligeva nelle attrici, perché queste qualità gli consentivano di “caricare di brucianti valenze sensuali i gesti più insignificanti, e di rivelare insospettabili passioni dietro glaciali compostezze”.
Il libro di Tronnolone contempla anche i ritratti di “qualche gentiluomo”. Tra questi figura Montgomery Clift, certamente noto al grande pubblico, ma non celebre al pari di Cary Grant e di James Stewart. Del resto, rispetto a questi due “giganti”, Clift rischiava quasi di risultare un “nano”. Per “Nodo alla gola” il regista aveva pensato a lui, ma poi optò per Stewart (protagonista di una performance strepitosa) e stava per scritturare Grant per il film “Io confesso”. Ma all’ultimo momento, racconta l’autore, la scelta cadde su Clift, il quale ne fu “entusiasta”. Accettò quindi senza nessuna riserva. Doveva recitare la parte di un prete e per prepararsi al ruolo decise di trascorrere una settimana in un monastero appena fuori Québec, condividendo con la piccola comunità gli orari di veglia e di preghiera comunitaria, i pasti frugali e il silenzio.
A dir poco magica fu l’alchimia che venne a crearsi tra il regista e Grace Kelly, la quale si dimostrava sempre “preparatissima, disciplinatissima”. Ma a colpire in modo particolare è il fatto che Hitchcock teneva in grande considerazione il parere dell’attrice. Prova ne sia il film “Delitto perfetto”. La scena del delitto prevedeva che la Kelly indossasse una pesante vestaglia color bordeaux. L’attrice obiettò che una donna svegliata al telefono in piena notte, sapendo di essere sola in casa, non avrebbe perso tempo a indossare una vestaglia, ma sarebbe andata direttamente a rispondere al telefono in camicia da notte. Il regista, sottolinea Tronnolone, decise di seguire il suo suggerimento, interrompendo così il progressivo scurirsi della scala cromatica – man mano che, secondo una tecnica cara al regista, la vicenda diventava più drammatica – ma conferendo al personaggio un ulteriore elemento di fragilità, “quando la vediamo andare ignara incontro al pericolo, nel taglio di luce che l’accompagna dalla camera da letto al telefono, indossando solo una diafana camicia da notte bianca”.
A rivedere quell’eccezionale scena, consapevoli del cambio di costume, risulta geniale l’intuizione di Grace Kelly, la quale di Hitchcock ebbe a dire: “Mi ha insegnato a girare scene d’amore come fossero scene di omicidio, e a girare scene di omicidio come fossero scene d’amore”.
Anche in questo caso, come darle torto!