L’opera di ogni romanziere contiene implicitamente una visione della storia del romanzo, un’”idea” di che cosa è il romanzo. E’ questa idea che Milan Kundera ha cercato di “far parlare” ne “L’arte del romanzo”. Il libro, che contiene sette testi qualificabili come tappe di un unico saggio, si propone come una sorta di anti-manifesto nei riguardi di qualsivoglia critica preordinata e puramente teorica. Lo scrittore è infatti consapevole che il romanzo, essendo “una creatura polimorfa”, si sottrae a classificazioni rigide e stereotipate. Da questa sbrigliata prospettiva derivano riflessioni stimolanti che finiscono per comporre un racconto unico, coeso pur nelle sue articolate sfumature.
Nel capitolo dedicato alla “denigrata eredità” di Cervantes, Kundera osserva con ammiccante acume che mentre Dio andava lentamente abbandonando il posto da cui aveva diretto l’universo, don Chisciotte “uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo”. Di conseguenza, in assenza del giudice supremo, il mondo apparve all’improvviso in una temibile ambiguità: l’unica verità divina si scompose in centinaia di verità relative, che gli uomini si spartirono tra loro. “Nacque così il mondo dei tempi moderni, e con esso il romanzo, sua immagine e modello”, dichiara Kundera.
Che cosa vuol dire il grande romanzo di Cervantes? C’è chi pretende di vedere in esso la critica razionalista del “fumoso idealismo” del protagonista; altri vi riconoscono l’esaltazione di questo stesso idealismo. “Entrambe le interpretazioni sono sbagliate – ammonisce – perché vogliono trovare alla base del romanzo non un interrogativo, ma un assunto morale”.
Kundera ricorda che l’uomo vuole che il bene e il male siano distinguibili: questa tensione si spiega con il fatto che in lui arde il desiderio di “giudicare prima di aver capito”. E’ su tale desiderio che “si sono fondate le religioni e le ideologie”. Esse possono conciliarsi con il romanzo solo traducendo il suo linguaggio di relatività e di ambiguità nel loro discorso apodittico e dogmatico. Religioni e ideologie esigono che “qualcuno abbia ragione”: o K., innocente, è schiacciato da un tribunale ingiusto, o dietro al tribunale si nasconde la giustizia divina e K. è colpevole.
Riguardo al personaggio di Anna Karenina, lo scrittore intesse una meditazione intrigante sul tragico destino dell’eroina. Kundera sostiene che la donna non è andata alla stazione per uccidersi. E’ invece andata a prendere Vronskij. Si butta sotto il treno “senza aver preso la decisione di farlo”. E’ piuttosto la decisione “ad aver preso Anna”. Ad averla sor-presa. Anna agisce a causa di un impulso inaspettato: ciò non significa che il suo gesto sia privo di senso, ma esso si trova al di là della causalità afferrabile della ragione. “Tolstoj – scrive Kundera – ha dovuto usare, per la prima volta nella storia del romanzo, un monologo interiore quasi joyciano per rendere il tessuto sottile degli impulsi fugaci, delle sensazioni passeggere, delle riflessioni frammentarie, in modo da farci vedere il progresso dell’anima di Anna verso il suicidio”.
Kundera ama andare controcorrente rispetto al comune sentire critico anche quando tratta di Kafka. Si dice molto spesso, rileva, che i suoi romanzi esprimono il desiderio “appassionato” della comunità e del contatto umano. Sembra che quell’essere “sradicato” che è K. non abbia che uno scopo: superare la maledizione della sua solitudine. “Ebbene, questa spiegazione è non solo un luogo comune una riduzione, ma un fraintendimento”. L’agrimensore K. non cerca di conquistare la gente e il loro calore, non vuole diventare “uomo fra gli uomini” come l’Oreste sartriano. Vuole essere accettato non da una comunità, ma da un’istituzione. Per raggiungere tale obiettivo, alto è il prezzo che deve pagare: ovvero, deve rinunciare alla sua solitudine. Ma non sarà mai solo. I due aiutanti mandati dal castello lo seguono continuamente. Non è la maledizione della solitudine, ma la solitudine violata la vera “ossessione” di Kafka.
Dal contingente all’universale. Nel trarre un bilancio delle sue singole riflessioni, Kundera afferma che la saggezza del romanzo differisce dalla saggezza della filosofia. Il romanzo è nato non dallo spirito teorico, ma dallo spirito dello humour. “Uno degli sbagli dell’Europa – afferma – è di non aver mai capito l’arte più europea, il romanzo, né il suo spirito, né le sue immense conoscenze e scoperte, né l’autonomia della sua storia”. L’arte ispirata dalla “risata di Dio” mentre l’uomo pensa – impostazione concettuale che Kundera giudica essere alle origini del romanzo – non dipende, per sua essenza, dalle certezze ideologiche, anzi le contraddice. Come Penelope, essa disfa, nel dipanarsi della notte, la trama che teologi, filosofi e scienziati hanno tessuto nello svolgersi del giorno.