Dal 1830 al 1848 il periodo della monarchia borghese aveva segnato un considerevole progresso sulla via dello sviluppo economico, parallelamente al quale, tuttavia, si era registrato un aggravamento delle condizioni di vita del popolo. Per questo motivo, alla rivoluzione del 1848 le masse popolari e la piccola e media borghesia parteciparono unite. Questi fatti non potevano non avere un potente riflesso sulla cultura e sull’arte. Significativamente Victor Hugo così scriveva: ”Ieri il poeta diceva ‘il pubblico’, oggi dice ‘il popolo’”. Dal canto suo, il pittore Alexandre-Gabriele Decamps affermava che “lo scopo dell’arte è di parlare al popolo e di educarlo facendo vibrare in lui il sentimento nazionale”, mentre il critico Henry Robert, rivendicando il suo valore quale “mezzo di educazione politica”, richiamava l’esigenza di “ritemprare l’arte in uno spirito sociale e di potenziare la sua forza civilizzatrice”.
E’ in questo clima che spicca l’arte, a beneficio del popolo, di Gustave Courbet, l’iniziatore e il principale animatore del realismo francese. “Senza la rivoluzione di febbraio, forse non si sarebbe mai vista la mia pittura” dichiarò. Sono infatti i turbolenti anni intorno al ’48 che decisero la sorte di Courbet artista. La sua vibrante esigenza di essere il pittore del suo tempo maturò proprio in quel periodo di grandi rivolgimenti, quando le masse popolari, nell’agitare le proprie legittime rivendicazioni, finirono per occupare in modo stabile e dinamico la scena della storia. Un amico di Courbet, Jules-Antoine Castagnery, critico d’arte e giornalista, scriveva di lui: “Nel 1848, nel momento i cui Pierre Dupont componeva versi sulle miserie dei lavoratori e George Sand lavorava alla ‘Palude del diavolo’, romanzo che celebra i poveri, era comprensibile che un pittore, nato dal popolo, repubblicano i costumi e di educazione, prendesse per oggetto della sua arte i contadini e i borghesi tra i quali aveva trascorso l’infanzia. Dipingendoli a grandezza naturale e dando ad essi il vigore e il carattere che fino ad allora erano stati riservati agli dei e agli eroi, Courbet portò a termine una rivoluzione artistica”.
Eloquente, per penetrare nel pensiero dell’artista, è il racconto, fatto dall’artista stesso, della genesi del suo quadro intitolato “Gli spaccapietre” (1849). “Andavo al castello di Saint-Denis a fare una passeggiata – rammenta -. Presso Maisières mi fermo a osservare due uomini che spaccano le pietre sulla strada. E’ difficile imbattersi in una espressione di più totale miseria. Così, a un tratto, mi venne in mente un quadro. Da una parte vi è un vecchio di settant’anni, curvo sul suo lavoro, con il piccone alzato, le carni abbronzate dal sole, la testa ombreggiata da un cappello di paglia, i pantaloni di stoffa grezza sono tutti rattoppati e, negli zoccoli sgangherati, le calze che dovevano essere blu lasciano vedere i calcagni. Qui, invece – prosegue – vi è un giovane con la testa impolverata, la carnagione grigiastra. La camicia sporca e a brandelli lascia scoperti i fianchi e le braccia; una bretella di cuoio trattiene ciò che rimane dei pantaloni e le scarpe di cuoio fangoso ridono tristemente da ogni parte. Il vecchio è in ginocchio, il giovane gli è dietro in piedi e trasporta con fatica un cesto di pietre spaccate. Ahimè! In questa condizioni, è così che si comincia ed è così che si finisce. Da troppo tempo – lamenta Courbet – i pittori miei contemporanei fanno dell’arte solo ideativa, senza alcun riferimento alla realtà, una realtà dolorosa”.
Courbet sente con aperta sincerità i bisogni del popolo e in esso aspira ad identificarsi. Nel 1850 scriveva: “Il popolo gode le mi simpatie, e al popolo devo rivolgermi direttamente, ed è il popolo che mi deve far vivere”. Due anni dopo avrebbe sottolineato con forza che per aiutare un movimento artistico bisogna “dare libero corso al genio popolare”. E nella sua “Autobiografia” ricordava con orgoglio che nel 1848 aveva innalzato la bandiera del realismo, “la sola a mettere l’arte al servizio dell’uomo”. Per questa ragione Courbet lottò contro tutte le forme di governo autoritario, “volendo che l’uomo governi sé stesso in conformità ai suoi bisogni e a suo diretto profitto”.