Fu un giudice severo, Delacroix, ma quando un artista incontrava il suo favore, non lesinava elogi: intensi (non manca tuttavia qualche riserva) furono quelli tributati al pittore francese Gros, allievo di David. In un articolo apparso sulla “Revue des Deux Mondes”, Delacroix affermava che Gros ha innalzato i soggetti moderni fino all’ideale e ha saputo dipingere l’abito, i costumi, le passioni del suo tempo senza cadere nella “grettezza” e nella “trivialità”. L’abitudine e il pregiudizio erano contro di lui. Nel momento in cui Gros apparve sulla scena, dominava incontrastato il principio secondo cui solo le forme e i soggetti antichi fossero capaci di offrire un vero interesse sia dal punto di vista della composizione che dell’esecuzione.
Il duro tirocinio gli aveva trasmesso il senso del rigore delle proporzioni, nonché un gusto raffinato del disegno. Eppure Gros “sbocciò” tardi. Da giovane non aveva ancora composto nessuna opera significativa. Il suo talento era rimasto sopito. Ci vollero i quadri “Madame Pasteur” (1795-1796), “Bonaparte visita gli appestati di Giaffa” (1804), “Mademoiselle Recamier” (1825) per farlo conoscere e apprezzare dalla critica e dal pubblico e per suggellarne l’eccellenza.
“La poesia dei particolari è una caratteristica di Gros – scriveva Delacroix -. Io credo che questo settore dell’arte sia più di tutti precluso alla mediocrità, e non perché certe idee sulla composizione siano eccezionali. Tanto è vero che la loro applicazione passa sovente inosservata agli occhi dello spettatore distratto”. La massima difficoltà per l’artista “timido e malfermo” sul suo Pegaso consiste nel renderle con chiarezza, ragione per cui, frenato dalla sua impotenza, egli viene inevitabilmente ricacciato “nelle banalità più usuali”, o reso per sempre “ridicolo” dalle sue sciocche e maldestre espressioni. “A vedere quel tocco così espressivo e così naturale – sottolinea – non posso impedirmi di pensare al vecchio Omero, alle sue scene di vita così sorprendenti nella loro rudezza e semplicità. Le immagini evocate dalla pittura di Gros non sembrano creature di quella stessa ispirazione potente e insieme tanto naturale?”. Egli era della specie di quei “felici geni” che vanno dritti allo scopo senza ricercare l’effetto o appellarsi al sentimento. Questa ricerca, che è “la piaga” delle epoche prive di grandi idee e di salde convinzioni, gli era sconosciuta.
Gros spinse così a fondo lo sdegno di certi mezzi per raggiungere gli effetti, che venne meno perfino a certe condizioni fondamentali dell’arte. Soprattutto nei contrasti di luce e ombra i suoi quadri risentono di più dell’assenza di una idea preconcetta. “La battaglia di Aboukir” (1807) è un esempio che “giustifica particolarmente questa critica”. Egli – questa è la riserva formulata da Delacroix – non fa circolare abbastanza aria tra i gruppi rappresentati. I suoi fondi mancano di profondità: David aveva eretto a sistema quello di non averne affatto. “Si rimane stupefatti – osserva – dalla semplicità dei particolari in Paolo Veronese e nel Correggio. Questa è l’arte della rinuncia, la più rara di tutte, quella che consiste nel non dire e nel non mostrare tutto. Le figure di Aboukir sono invece troppo studiate rispetto alla nudità dei fondi. Ne risulta una certa freddezza e un difetto di volume”.