La prima “Estetica” di Benedetto Croce (1902) era stata la conclusione di lunghi studi e di intense meditazioni sulla problematica filosofica italiana ed europea della seconda metà dell’Ottocento. Dopo il 1903 l’opera si presentava, invece, come l’inizio di un organico sistema di “filosofia dello spirito” collocato entro la cornice della “rinascita idealistica” di cui Giovanni Gentile era l’araldo più tecnicamente filosofico e più propriamente accademico. Ma anche Croce, tra il 1903 e il 1908, offriva un sistema aggiornato, capace di integrare il processo dialettico della storia con solide strutture, con una classificazione esaustiva dei concetti-chiave necessari per mettere ordine nella realtà.
Tuttavia nel 1909 si verificò una svolta. In quell’anno Croce pubblicava “Filosofia della pratica”, che segna la fine della “sistematica” crociana. Egli sembra “contento”, osserva Eugenio Garin, di lasciare in disparte “i filosofi di professione” (in realtà mai frequentati con fervido trasporto) per tornare ai suoi poeti e ai suoi storici – tra i quali spiccano Vico e De Sanctis verso cui lo traeva la curiosità, mai sazia, propria dell’erudito, e la cristallina vocazione di storico della cultura.
Il passaggio, decisivo, dall’atmosfera rarefatta dei concetti puri alla spumeggiante ricchezza della storia si misura nelle ultime pagine della “Filosofia della pratica”, in cui tesse l’elogio della vita che si rinnova in forme sempre diverse e imprevedibili. “Parecchi – osserva – giunti alla fine del sistema filosofico sono presi come da un senso di insoddisfazione e di delusione. Sembra loro ben povero mondo, oltre il quale non ce n’è un altro. Uno spirito immanente, ben inferiore a paragone di uno spirito trascendente; realtà meno poetica di un’altra, cinta di mistero; e il vago e l’indeterminato, più bello del preciso e del determinato. Ma noi sappiamo – sottolinea – che costoro si aggirano in una illusione psicologica, pari a quella di chi sogni un’arte sublime che, a paragone di essa, ogni opera d’arte realmente esistente appaia così spregevole. Questi raffinatissimi poeti sono impotenti, e impotenti sono quei filosofi insaziabili”.
Croce dunque muove un’aspra critica a coloro che vogliono evadere dal cerchio ben definito dell’operosità terrena per rivolgersi ad un infinito trascendente. “L’infinito, inesauribile dal pensiero dell’individuo, è la realtà stessa che crea sempre nuove forme. E’ la vita” evidenzia Croce che, con tono perentorio, dichiara: “Nessun sistema filosofico è definitivo perché la vita non è mai definitiva. Un sistema filosofico risolve un gruppo di problemi storicamente dati, e prepara la condizione per la posizione di altri problemi e, cioè, di nuovi interessi. Così è sempre stato, e così sarà sempre”.
Croce è ben consapevole che ogni filosofo, alla fine di una ricerca, intravede le prime incerte linee di un’altra che egli medesimo, o chi verrà dopo di lui, eseguirà. Ed è con questa modestia, che è delle cose stesse e non del suo “sentimento personale”, che egli mette termine alla sua ricerca, porgendola ai ben disposti come strumento di lavoro.