Animata, già da adolescente, da un’ardente passione per la cultura, Grazia Deledda insistette per farsi dare lezioni private dal professore di italiano del Regio Ginnasio di Nuoro. Carico di debiti, il docente pensò bene di fuggire dalla città lasciando dietro di sé, tra le altre cose, i libri dei quali il futuro premio Nobel, avido di letture, si sarebbe nutrita. La formazione della scrittrice (nata il 27 settembre di 150 anni fa) appare dunque sin dall’inizio segnata da letture disordinate di romanzi, novelle, poesie, piuttosto che da precisi percorsi scolastici. Ad undici anni, raccontano le cronache del tempo, “ripetè la quarta non perché bocciata, ma perché, nella allora piccola città, non c’erano altre classi di scuole femminili”.
Non ancora diciassettenne la Deledda, l’8 luglio 1888, “sbarca” nel continente con il racconto “Sangue sardo”, pubblicato dalla rivista romana “L’ultima moda”. Il testo già contiene quelle che saranno le caratteristiche elettive della prosa daleddiana: anzitutto una semplicità intrisa di pragmatismo capace di trasmettere i suoni e i colori di un’atmosfera, e sostenuta dalla talentuosa capacità di descrivere con pochi ma illuminanti tocchi la psicologia dei personaggi. E’ nel romanzo “La via del male” che s’impone un saliente valore narrativo, ovvero il legame simbiotico tra personaggio ed ambiente circostante, che nasce dalla consapevolezza della scrittrice che “un certo stato d’animo non nasce mai per caso” ma si viene a configurare secondo le influenze esercitate dal contesto esteriore. Quello della Deledda, è bene precisare, non è un facile e superficiale determinismo: al contrario, è un pensiero che affonda le radici nella fattuale realtà delle cose che porta – il passo è breve – al devoto rispetto per la tradizione e per il patrimonio di valori – umani ed etici – condivisi. Al riguardo, è emblematica la figura del servo Efix, il vero protagonista di “Canne al vento”, il capolavoro della scrittrice. Egli infatti incarna il simbolo di un mondo “agli sgoccioli”, sentito dalla gente comune come ormai sorpassato: un mondo che riconosce nella difesa della terra e di tutto ciò che essa rappresenta – nel segno della virtù, della rettitudine, della laboriosità – l’aspirazione più alta e gratificante. “Il servo – scrive la Deledda – non guardava mai al di là del poderetto. Le due siepi di fichi d’India che lo chiudono gli sembrano i confini del mondo”. In Efix vibra la saggezza di un mondo ancestrale tra il biblico e l’omerico, e la sua esistenza nobilmente si consuma nel lavoro e nel sacrificio.
Efix, che si sente colpevole della morte (omicidio involontario) del padrone don Zame e della conseguente rovina della famiglia Pintor, dedica tutto se stesso a Ruth, Ester e Noemi, le tre figlie del padrone. Accetta di prestare i suoi servizi indefessamente senza essere pagato e cerca di salvare ciò che resta del patrimonio della famiglia. Nel romanzo ogni personaggio è prima insidiato e poi tormentato dal senso del peccato, che ne mette a nudo l’estrema fragilità. E fra la ribellione personale ai divieti e il riconoscimento delle pur sempre vive consuetudini trovano spazio quel destino, quella fatalità che hanno nell’immagine delle canne una rappresentazione icastica. “Fuori – si legge in un passo dell’opera – le canne del ciglione frusciavano con tale violenza che pareva combattessero una battaglia. All’alba, uscendo dalla capanna Efix infatti ne vide centinaia pendere spezzate, con le larghe foglie sparse per terra come spade rotte”. In questo scenario, che sa di sgretolamento, nonché di distruzione, si dispiega, in modo funzionale, il dramma dei personaggi della vicenda, il cui stato d’animo è in un continuo fluttuare di sensazioni ed umori che convergono a denunciare la dimensione transeunte della condizione umana, impossibile da imbrigliare.
E a ben guardare, non è dato di classificare in modo definitivo la stessa Deledda nonostante la critica si sia sforzata in passato di conformarla ai canoni rispettivamente del verismo, del naturalismo, del decadentismo. Il suo status narrativo, in realtà, sfugge a qualsivoglia catalogazione, a testimonianza del valore di una scrittura capace – nel sondare l’animo umani fino ai suoi più remoti recessi – di trascendere le correnti letterarie per assurgere ad espressione superiore del mondo, dei suoi atti impuri ma anche delle sue tensioni eroiche.