Sono l’esemplare di una forma di poesia civile i componimenti racchiusi ne “Le ceneri di Gramsci” di Pier Paolo Pasolini. L’opera (che utilizza in prevalenza la terzina dantesca) uscì in volume nel 1957: raccoglieva undici poemetti, tutti già pubblicati per la maggior parte in rivista tra il 1951 e il 1956. Un lavoro, quello di Pasolini, che cadeva in un momento molto delicato per la cultura italiana di sinistra, alla ricerca di nuovi e stabili equilibri dopo aver assistito alla condanna di Stalin nel corso del ventesimo congresso del partito comunista sovietico e alla drammatica invasione dell’Ungheria. In quello scenario “Le ceneri di Gramsci” venne a rivestire un valore di così potente attualità, sul piano sia politico che civile, da riscuotere un grande successo di vendite, insolito per un libro di poesia.
Al successo di vendite si accompagnò un acceso dibattito caratterizzato da voci discordanti. Pietro Citati parlò di “poesia prefabbricata”, mentre Carlo Salinari (che non aveva espresso una valutazione lusinghiera su “Ragazzi di vita”) affermò di avere di fronte “il primo libro di poesia della nuova generazione veramente importante”. Aggiungeva, tuttavia, che la musa pasoliniana risultava essere un po’ troppo schematica, poiché nel denunciare la fine della “civiltà borghese individualistica” non riusciva allo stesso tempo di “prefigurare il nuovo”. A formulare un giudizio manifestamente positivo fu Geno Pampaloni che definì l’opera non “poesia ideologica” ma “poesia dell’ideologia”: una chiave di lettura quale antidoto contro gli opposti moralismo, sia di destra che di sinistra, impegnati a disputarsi “Le ceneri” con valutazioni aprioristiche.
“L’Appennino”, datato in calce 1951, è il primo dei poemetti: in un itinerario di carattere geografico-culturale e storico-antropologico, dominato dalla luce bianca della luna, torreggia, come centro ideale, la statua di Ilaria del Carretto (di Jacopo della Quercia). Il motivo della bianca luce riecheggia il componimento di Leopardi “Sopra un bassorilievo sepolcrale”. Spicca, nel ventaglio dei poemetti, quello intitolato Picasso”. E’ ambientato alla Galleria nazionale di arte moderna, dove è allestita una mostra dedicata all’artista spagnolo. Pasolini rileva che nella pittura di Picasso un “errore” che consiste nell’assenza in essa del popolo e del suo “brusio”: in tale osservazione è dato di constatare una polemica implicita con l’establishment culturale comunista che riconosceva Picasso un artista altamente rappresentativo dell’ideologia marxista.
Suscitò acre polemiche il poemetto intitolato “L’umile Italia”, in cui viene rappresentata, in modo icastico, la contrapposizione tra la cupa tristezza dell’Agro romano e la luminosità del settentrione. Il nodo, il cui emblema sono le rondini, è concepito come puro e laboriosamente umile mentre il Meridione viene descritto come “sporco e splendido”. Scrive Pasolini: “E’ necessità il capire/ e il fare: il credersi volti/ al meglio cercando di lottare pur soffrendo senza lasciarsi andare alla rassegnazione-furente marchio/ della servitù e del sesso/ che il greco meridione fa/ decrepito e increato, sporco/ e splendido”.
Vi è quindi il poemetto che dà il titolo alla raccolta, datato 1954. L’incipit “Non è di maggio questa impura aria” apre il componimento che respira l’atmosfera di una tetra primavera romana. Pasolini, che è a colloquio immaginario con la tomba di Gramsci (nel cimitero acattolico di Roma) afferma che è lontano “il maggio italiano” nel quale il giovane Gramsci delineava “l’ideale che illumina”. Quella luce ora non brilla più e di conseguenza tutto è diventato tedio e silenzio. In versi carichi di passione civile, Pasolini chiarisce la propria posizione di intellettuale irregolare “attratto da una vita proletaria/ a te anteriore, è per me religione/ la sua allegria, non la millenaria/ sua lotta: la sua natura, non la sua/ coscienza” e, pur cosciente di desiderare l’identificazione con il proletariato, sa di essere diverso.
La raccolta si chiude con il poemetto intitolato “La Terra di Lavoro” (1956). Pasolini descrive un treno affollato di pendolari che hanno per nemico “il padrone”, ma anche “il compagno che pretende che lottino in una fede che ormai è negazione/della fede”.
Come sottolinea Giuseppe Leonelli, se si dovesse eleggere nel tessuto stilistico, e quindi umano, dell’opera di Pasolini una parola-tema che “la sottenda fino all’ossessione, la scelta cadrebbe senza dubbio sul termine “passione”. “E’ lì, nella passione, – scrive Leonelli – la radice insieme vitale e mortuaria di ogni atteggiamento, anche il più contingente, il più effimero, dell’uomo, dell’artista, del critico, del pedagogo”.