Non fece sconti alla società americana, denunciandone, con stile corrosivo, la sfrenata corsa al progresso: un’accusa, quella formulata dallo scrittore e drammaturgo Arthur Miller, che lo ha elevato – pur tra i mugugni dei benpensanti – allo status di coscienza di un Paese irretito da subdoli meccanismi votati al raggiungimento, ad ogni costo, della fama duratura. Al contrario, essa si rivelerà infida ed effimera.
Esemplare, al riguardo, è la figura di Willy Loman, protagonista di “Morte di un commesso viaggiatore” (scritto nel 1949, e in quello stesso anno vinse il premio Pulitzer per la drammaturgia), considerato uno dei testi più importanti del teatro contemporaneo statunitense. Sono affrontati, con graffiante incisività, i temi del conflitto familiare, della responsabilità morale dell’individuo e del sogno americano che inghiotte senza scrupoli l’uomo e i suoi slanci più nobili. Willy è ossessionato dall’idea del successo e del perseguimento dei beni materiali, indotta, a ritmo martellante, dalla società. Abituato a viaggiare, un giorno si accorgerà che la salute lo sta abbandonando. E non solo la salute: la moglie e i figli, infatti, non riescono a comprendere il suo dramma e finiscono per trattarlo come un oggetto “strano”. Sul filo dei ricordi dei bei tempi passati si dipana il motivo che percorre l’intera opera: la solitudine. Il funerale, che segue il suo suicidio (probabilmente compiuto per permettere alla famiglia, in gravi ristrettezze economiche, di riscuotere il premio assicurativo sulla vita) si svolge nell’indifferenza dei conoscenti di Willy. Anche sulle parole della moglie che, china sulla tomba, dice di non comprendere quel gesto estremo, si misura la tristezza che investe una distanza incolmabile.
Non meno pungente è l’opera “Il crogiuolo” (1953), in cui lo scrittore, prendendo spunto dalla caccia alle streghe a Salem, nel 1692, stabilisce un significativo parallelo con il maccartismo degli anni Cinquanta, che aveva contribuito ad alimentare un’esasperata contrapposizione nei confronti di persone e comportamenti ritenuti lesivi dei fondamenti morali e civili della società americana. Anche il dramma di Miller si svolge a Salem. Nel villaggio il turbinare di accuse di stregonerie rivolte ai vari abitanti finisce per determinare un clima di sospetto, in cui verità e menzogna si sovrappongono e si confondono. Si arriverà a dover confessare il falso per aver salva la vita.
A questa logica perversa non si inchinerà il protagonista, John Proctor, che si rifiuterà di fare i nomi e quindi di gettare la colpa su persone innocenti. Questo gesto, sintesi di dignità e coraggio, lo porterà al patibolo.
Pur strappando qua e là qualche sorriso grazie a sprazzi di ironia, pesa come un macigno “Uno sguardo dal ponte” (1955). Quello sguardo altro non è che una fotografia cruda delle mille facce della New York degli anni Cinquanta. Il dramma personale di Eddi Carbone, lacerato da un amore conturbante per la figliastra, si lega ad un altro dramma di più largo respiro, che si consuma nel divario tra la lussuosa Manhattan e la misera e grigia Brooklyn, dimora di immigrati e portuali.
Nonostante il registro narrativo di Miller si identifichi nel dramma, sia della persona che dei suoi ideali sacrificati sull’altare di un progresso inafferrabile, nell’opera dello scrittore si conserva tenace l’afflato di un sorridente ottimismo, in qualche modo rassicurante nella sua pacatezza. Tanto che il drammaturgo soleva dire che per ogni persona il massimo obiettivo è di “finire il proprio viaggio con i giusti rimpianti”.